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Channel: SerialDiver – Tutto il mare possibile
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Il Lerici Diving Festival alle porte

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Arriva l’edizione di partenza di una kermesse che vedrà tanti appuntamenti prestigiosi con la miglior subacquea del momento. Un evento imperdibile!

La Redazione

Tra anteprime e prove attrezzature, navi perdute, palombari, ricerca medica, workshop e tanto altro si svolgerà il 22-23-24 aprile 2017 l’edizione “Zero” del Lerici Diving Festival, promosso dalle Associazioni “5 Terre Academy” e “La Tribù Diving Academy” con il patrocinio del Comune di Lerici.
Una tre giorni ricca di eventi, tra cui i test dei prodotti per Apnea e Diving con una azienda leader del settore quale la Mares che porterà le novità per la stagione in corso e i propri esperti per rispondere a tutte le domande del pubblico.
Una serie di conferenze, guidate da Cesare Balzi, IANTD, che parlerà di “Navi Mercantili perdute da Levanto all’isola del Tino“, il C.F. Giampaolo Trucco, di Comsubin che relazionerà su “Palombari di ieri e di oggi“, con la straordinaria partecipazione della DAN Europe che presenterà in due conferenze distinte alcune delle recenti ricerche effettuate e sarà presente con il DLS lab per monitorare le immersioni dei sub.
A concludere, un workshop di post produzione di Davide Lopresti.


Lantane, antozoi e altre storie

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C’è tempo ancora fino al 4 maggio per partecipare con foto anche subacquee a “Noto-fior-di-foto”, concorso nato per i fiori di terra. E non è cosa di poco conto. Sentite perché.

La Redazione

Logo concorso NotoParliamo di questo concorso fotografico alla sua prima edizione, intitolato “Noto fior di foto” in omaggio ai giorni della celebre “infiorata” della splendida cittadina siciliana di Noto (provincia di Siracusa) culminante nei giorni dal 19 al 21 maggio, per una particolarità apparentemente di poco conto ma secondo noi invece significativa per i tutti i subacquei. E’ accaduto che l’organizzazione del premio – cui si sono già iscritti molti concorrenti anche dall’estero, conferendo al tutto una forte connotazione di internazionalità – ha ripensato l’originaria impostazione dedicata agli aspetti floristici del territorio allargandone il significato al mare. In che modo? Istituendo una menzione speciale per una foto subacquea che ritragga comunque un soggetto associabile al tema floreale. Ora, come ben sappiamo, sott’acqua quasi tutto (pesci a parte) sembra un fiore… anche se quasi nulla lo è in senso stretto. Intere colonie di organismi sessili – adesi al fondale – appaiono come lussureggianti infiorescenze, anche se si tratta biologicamente di animali. Così, esteticamente parlando – e ci azzarderemmo a dire anche artisticamente – c’è sembrata una buona idea, dalla portata più profonda di quanto sembrasse. Perfino educativa. Una maniera anche di riconoscere la trasversalità dei valori che vengono dal mondo dell’immersione, un mondo nient’affatto confinato sotto le onde, che così può esser fatto conoscere meglio anche a chi subacqueo non è ma cionondimeno può restarne attratto. Certo, non equivarrà esattamente all’istituzione di una vera e propria categoria fotografica dedicata, ma in compenso potrebbe porre le basi per crearne una nella edizione successiva del premio. E vi dice nulla il fatto che a una prima occhiata una colonia sottomarina di Antozoi possa richiamare così da vicino un’infiorata di Lantane, il fiore tanto comune e caratteristico in Sicilia? Dopotutto – e se lo sapevate già, pazientate: ci piace ricordarlo – l’etimologia di “antozoi” sta letteralmente per “fiori animali”. Intanto, per concorrere a questa menzione speciale, c’è tempo per iscrivere la propria foto subacquea fino alla mezzanotte di giovedì 4 maggio. Forza, fotosub… dateci dentro! Tutte le informazioni e il regolamento della partecipazione (gratuita!) nel sito del concorso: http://notofiordifoto.it

La Banca

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«Molti videosub che arrivano dalla fotografia producono immagini bellissime ma faticano a trovare una storia e una sceneggiatura, che alla fine sono l’anima del videomaking». Parola di Sergio Pistoi, che all’ultimo EudiVideo si aggiudica il 3° posto esordienti, con tanto di menzione speciale. Per questo video: https://www.youtube.com/watch?v=gTr3bYScRgk

di Romano Barluzzi

Sergio Pistoi… che nella vita fa?
«Fuori dall’acqua mi guadagno da vivere come biologo e giornalista scientifico. Diciamo che sono un ibrido tra un genetista, un autore e un divulgatore

Come hai intrapreso l’attività subacquea?
«Con pinne e maschera ci vado da sempre. Da piccolo ho avuto la fortuna di vivere in una città di mare e ne ho approfittato alla grande. Poi la pacchia è finita, ho vissuto il resto della mia vita lontano dalla costa, ma la passione che mi porta a stare ore in acqua è rimasta. In età più matura, diciamo che avevo superato i trenta, ho preso il mio primo brevetto ARA, fino a diventare divemaster

E la voglia di realizzare immagini come t’è venuta?
«Fuori dall’acqua la fissa delle immagini ce l’ho fin da bambino. La mia prima macchina, verso gli otto anni, fu una Polaroid regalata dai miei zii, un aggeggio più grande di me che mi trascinavo ovunque. Era una specie di laboratorio ambulante. Dopo aver scattato dovevi tirare una linguetta per estrarre una specie di sandwich con foto e negativo, lo mettevi in tasca per tenerlo al caldo, agitavi, contavi tre minuti, pregavi e poi aprivi. Se andava bene, dal sandwich appiccicoso veniva fuori la foto. Siccome ogni foto costava uno sproposito, i miei me le razionavano e cercavano di dirottarmi verso le cartoline. Mi dicevano: se devi fare una foto ricordo senza persone, prenditi una cartolina, che costa meno ed è fatta meglio. Tecnicamente avevano ragione. Ma oggi rivedo quelle Polaroid e so che hanno una storia. Le ho fatte io. Mi riportano esattamente al momento in cui le ho scattate. E’ una cosa che ho cercato di raccontare nel mio video: l’immagine che diventa quasi un’estensione della memoria.»

Direttamente video o sei passato prima per la foto?
«Alle riprese subacquee sono passato da adulto, quando le attrezzature sono diventate più accessibili e le macchine digitali erano già lo standard. Ho cominciato facendo foto, ma presto mi sono ritrovato a girare soprattutto filmati, sfruttando la stessa compatta digitale. Il fatto di approdare direttamente al video, insieme ad una certa dimestichezza con il racconto, che poi è quello che faccio per lavoro, sono due cose che sicuramente mi aiutano, nonostante sia tecnicamente un videomaker mediocre. Molti videosub che arrivano dalla fotografia producono immagini bellissime ma faticano a trovare una storia e una sceneggiatura, che alla fine sono l’anima del videomaking.»

Dunque col tuo video “La Banca” fai un bellissimo piazzamento, con tanto di menzione speciale… è forse stato merito del titolo particolarmente di attualità?
«In effetti può essere, anche se il titolo in realtà allude alla banca dei ricordi. A differenza di certi titoli bancari, investire nella memoria vale sempre la pena. Ogni ricordo che fissi nei fotogrammi un giorno ti tornerà utile. Ti ricorderà sempre chi eri e cosa ti piaceva fare. Ho cercato di restituire quest’idea un po’ malinconica del ricordo ma non è una figura astratta: mi ritrovo spesso a guardare i filmati solo per rivivere le emozioni di quando li ho girati. E ho scoperto che lo c’è gente peggio di me. Durante un viaggio sub, ad esempio, un compagno di immersioni mi ha raccontato che le immagini che girava continuamente (suppongo inguardabili, fatte con una GoPro attaccata al braccio) servivano solo a rivedersele – magari di nascosto – sul computer dell’ufficio e rivivere quei momenti. Con le cuffie, per sentire anche il rumore dell’erogatore! Un uso così intimo delle immagini in questi tempi di ostentazione social è quasi ammirevole. Certo che se si esce dall’uso personale e si crea qualcosa per gli altri è tutto diverso: dev’esserci una storia, un montaggio, un messaggio da trasmettere e che abbia senso per il pubblico.»

Parliamo del tema vero di questo “prodotto del tuo ingegno”: lo snorkeling. Cos’è per te?
«Per me è un modo per esplorare il mare con calma. Per raccogliere immagini senza i ritmi gioiosi ma assillanti di un gruppo, come succede nelle tipiche immersioni, che comunque faccio spesso e volentieri. Se parto dalla spiaggia sto in giro anche per tre o quattro ore, e magari ne passo due nello stesso fazzoletto d’acqua a fare discese solo per guardare o riprendere un polpo che esce dalla tana. Bombole, apnea e snorkeling sono tutte emozioni uniche che secondo me si completano a vicenda.»

Potrebbe secondo te avere una sua propria configurazione, come una materia, un campo in cui apprendere e divulgare, specie dal punto di vista naturalistico?
«Assolutamente sì. Dobbiamo smetterla di vedere lo snorkeling come il parente povero delle immersioni. Con maschera e boccaglio, magari con una buona guida, si possono fare osservazioni naturalistiche altrettanto interessanti, se non di più.
Lo snorkeling è un’attività che forse molti diving dovrebbero curare meglio, magari proponendo un’offerta specifica, invece di imbarcare gli snorkelisti come ospiti in più, se avanza spazio, e poi lasciare che si facciano il giretto da soli intorno alla barca. E’ assurdo, come se in montagna invece di proporti l’escursione ti dicessero: noi andiamo a farci la scalata con funi e ramponi, tu intanto fatti un bel giretto qui intorno al rifugio, poi ti riportiamo a casa. Un’ offerta più articolata, magari accompagnata da un momento divulgativo brillante mirato agli adulti e non solo ai ragazzini come si fa di solito, convincerebbe molte più persone ad avvicinarsi alla subacquea, e sicuramente ad amare il mare. Nel mio lavoro di divulgatore ho imparato che la gente va spronata a incuriosirsi, non assecondata a crogiolarsi nella naturale pigrizia mentale e fisica. E’ la curiosità che ti spinge ogni volta a fare quei dieci minuti in più di pinneggiata che ti portano lontano dalla barca o dalla spiaggia, ovviamente in sicurezza, che è la prima cosa.
E poi è ora di esplorare alternative, anche sportive, alla pesca sub. Non pesco e non ho niente in linea di principio contro chi lo fa responsabilmente. Però mi rattrista vedere che per molti ragazzini il primo approccio con il mare e l’apnea consiste nell’imbracciare un fucile, magari incoraggiati dai genitori. Lo snorkeling, l’osservazione, i filmati sono un modo sicuramente migliore con cui scoprire il mare. Dopodiché ciascuno può trovare la propria strada.
»

Di preferenza che apparecchiature usi per le tue riprese?
«Uso una GoPro, eventualmente con delle lenti Macromate per la macro, e un paio di faretti poco ingombranti. Niente di particolarmente sofisticato, sicuramente un compromesso con la qualità, ma sto cercando di dotarmi di un’attrezzatura cross-ove leggera, maneggevole che posso portarmi dietro in viaggio per tutte le occasioni, anche con le bombole.»

Da 1 a 10 che importanza dai alla post-produzione? O propendi per il “buona la prima”?
«Tutto è importante, ma la parte che veramente distingue il videomaker secondo me è quella che viene prima, la pre-produzione. La storia. Prima di girare devi avere almeno un’idea della storia che vuoi raccontare e del tipo di montaggio che farai, così da portare a casa le immagini che ti servono. Devi scendere in acqua con uno storyboard, almeno in testa. Oltre a ciò, per quanto mi riguarda dedico molta attenzione anche a scrivere i testi e alla colonna sonora. Riguardo alle immagini, un po’ di correzione del colore ci va sempre, almeno per me. Altri effetti hanno senso se servono a rafforzare il racconto. Altrimenti niente.»

Vorresti che il mercato sfornasse qualcosa di particolarmente utile nello snorkeling che non sia già uscito? (Dal punto di vista delle videoriprese… )
«Sogno luci leggere, maneggevoli, con buona autonomia e ottima resa cromatica da usare come cross-over per lo snorkeling, l’ARA e l’apnea. Solo pochi anni fa unire tutte queste doti era fantascienza. Oggi ci sono modelli che, pur essendo ancora un compromesso, si avvicinano a questo obiettivo. Nei prossimi mesi spero di riuscire a provarne qualcuno. Stay tuned!»

Questa la “menzione speciale” associata al premio vinto dall’autore all’EudiVideo: «La giuria, all’unanimità, ha deciso di conferire una menzione speciale al filmato di Sergio Pistoi“La Banca” per l’originalità dell’idea trattata.»

Il Rebreather Meeting

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La fantastica cornice naturale di Ponza ha ospitato quest’anno la V edizione del “Rebreather Meeting”, organizzato dal Ponza Diving di Andrea Donati

di Claudio Budrio Butteroni. Foto Marco Sieni

ReabreatherMeetingLocandinaLa quattro giorni ponzese, tenutasi dal 4 al 7 maggio si è confermata essere un “MUST” per gli appassionati del settore e ha visto un importante riscontro da parte della comunità subacquea internazionale con ospiti sopraggiunti, per l’occasione, da tutta Europa.
La formula, ormai di consolidato successo, prevedeva un doppio appuntamento giornaliero con uscita mattutina in barca sul Nettuno II, la nuova ammiraglia del Ponza Diving, immersione, pranzo a bordo, rientro in porto e convention pomeridiana.
Nonostante l’elevato numero di partecipanti, lo staff del Ponda Diving è riuscito a sorprendere tutti per la propria organizzazione e professionalità; e tutte le operazioni di vestizione, entrata e uscita dall’acqua si sono svolte con una rapidità e una fluidità sorprendenti.
Una menzione doverosa va a Daniela Spaziani la quale, per l’occasione, ha sacrificato le sue spiccate doti subacquee per dare prova a tutti i partecipanti delle altrettanto elevate doti culinarie.

Importante la presenza a bordo del Nettuno II di DAN EUROPE, il cui staff ha dato prova di grande competenza e professionalità allestendo un laboratorio da campo nel quale i partecipanti hanno potuto sottoporsi ad un ampia gamma di esami pre e post immersione.
Durante le immersioni è stato poi possibile testare gli scooter messi a disposizione dalle Suex e le mute e i corpetti riscaldati Santi.
Teatro della convention è stato il museo storico di Ponza, aperto per l’occasione e messo a disposizione degli ospiti, a cui è stato concesso di poter visitare anche la sala dedicata al naufragio del Santa Lucia, nave ponzese affondata da aerosiluranti inglesi alla fine del II conflitto mondiale in acque di Ventotene.

La parte congressuale, articolata nei due pomeriggi di venerdì e sabato, ha visto la partecipazione, in qualità di relatori, di personaggi di altissimo profilo internazionale:

Prof. Simon Mitchell – professore presso l’Università di Aucklan – New Zeland – responsabile del Dipartimento di Anestesiologia presso la Scuola di Medicina dell’Università di Auckland. Subacqueo di fama internazionale specializzato in immersione su relitti profondi, titolare di numerosi titoli accademici e insignito di numerosi riconoscimenti internazionali.
The respiratory phisyology of rebreather diving. – La fisiologia della respirazione nell’immersione con rebreather
Intelligent use of CO2 scrubbers – L’uso intelligente del filtro per la Co2.

Mark Powell – TDI instructor Trainer, membro del TDI’s Global Training Advisor Panel, rappresentate TDI in seno al British Diving Safety Group e al HSE Recreational Diving Industry Committee, membro Diver Training and Breathing Apparatus presso il British Standards Institute. Autore nel 2008 del libro “Deco for divers” che rappresenta oggi un testo fondamentale di riferimento per i deco-divers. Specializzato in immersione sui relitti. Insignito di numerosi riconoscimenti internazionali.
Fitness. How important is it for diving – Allenamento. Quanto è importante per l’immersione.
Deep stops. Where are we now? – Deep stop. A che punto siamo?

Dott. Pasquale Longobardi – direttore sanitario del Centro Iperbarico di Ravenna dal 1989. Consigliere Nazionale e presidente del SIMSI (Società Italiana di Medicina Subacquea ed Iperbarica), Membro del Comitato esecutivo del DMAC (Diving Medical Advisory Committee) e dell’EDTC (European Diving Technology Committee) – Membro di SIMIN (Scuola Interdisciplinare Medico Iperbarica Napoletana), DAN – Divers Alert Network, UHMS (Undersea and Hyperbaric Medical Society, Bethesda, USA), EUBS (European Underwater Biomedical Society), International Congress for Hyperbaric Medicine.
The CCR reduce oxidative stress ad infiammation in diving – Il CCr riduce lo stress ossidativo e infiammatorio in immersione.

Claudio Carnello – Saicom – responsabile gestione e manutenzione impianti criogenici presso la GRUPPO SAPIO. Subacqueo di levatura internazionale. Esploratore subacqueo specializzato in immersioni in grotta. Responsabile dell’allestimento di campo-base, habitat decompressivi, gestione e logistica gas in numerose spedizioni internazionali.
Sicurezza nella manipolazione dell’ossigeno.

Prof. Alessandro Marroni – fondatore e presidente di DAN EUROPE; membro del Bord of Directors and President di DAN INTERNATIONAL; Vice Presidente del Comitato Europeo per la Medicina Iperbarica (ECHM); Presidente della Fondazione Europea per l’Educazione in Baromedicina; segretario generale del Collegio Europeo di Baromedicina.
Scientific research and CCr advanced knowledge an the safety of decompression. La ricerca scientifica e la conoscenza avanzata di CCr nella sicurezza della decompressione.
– Risultati preliminari dei test di laboratorio condotti dal DAN durante l’evento.

Presenti, in qualità di partecipanti, altri nomi di spicco della subacquea internazionale tra cui:

Jan Peterson – proprietario e fondatore JJ CCR;
David Thompson – uno dei piu famosi esperti nella progettazione di CCR.
Edoardo Pavia – a cui si deve il sapiente operato di interprete, senza il quale (data la complessità degli argomenti trattati) molte nozioni sarebbero andate perse per i partecipanti;

Tra i vari sponsor dell’evento, è risultata graditissima a tutti i partecipanti la presenza dell’azienda agricola CASALE DEL GIGLIO che, durante la cena di fine evento tenutasi sulla panoramicissima terrazza del Ristorante EEA, ha allietato tutti partecipanti con prodotti enologici di elevatissima caratura.
Non ci rimane che ringraziare tutti, organizzatori, relatori e partecipanti per l’opportunità di mutuo arricchimento che ci siamo concessi; e augurarci un arrivederci a presto per il VI Rebreather Meeting. (Foto di Marco Sieni presso www.marcosieni.it)

La memoria del passato, le radici nel futuro

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«È stato questo il titolo dell’apertura della Gran Loggia di quest’anno, dedicata ai 300 anni della Massoneria moderna nel mondo, che ha celebrato con una manifestazione l’appartenenza di Maiorca all’istituzione…», racconta Leonardo D’Imporzano. Ed ecco anche quella che fu la sua videointervista a Enzo Maiorca

di e con Leonardo D’Imporzano. Foto apertura Romano Barluzzi.

Si è svolta al Palacongressi di Rimini il 7, l’8 e il 9 aprile scorso la “Gran Loggia del Grande Oriente d’Italia”, la più numerosa obbedienza massonica della Penisola che vede tra le colonne con tanto di grembiule e guanti oltre 23.000 italiani.
Perché ne parliamo sulle pagine di “SerialDiver”? Perché tra i tanti nomi noti e meno noti, tra cui Arnoldo Foà, il celebre Antonio De Curtis in arte Totò, Giosuè Carducci, il sindaco di Roma Ernesto Nathan, il papà di Corto Maltese Hugo Pratt, scrittori come Kipling, Arthur Conan Doyle, Oscar Wilde e ancora astronauti come John Glenn e Edwin Aldrin, c’è anche un mito della subacquea: Enzo Majorca, che apparteneva alla Loggia “Archimede” di Siracusa.
E proprio l’apertura della Gran Loggia di quest’anno, dal titolo “La Memoria del passato, le radici nel futuro”, dedicata ai 300 anni della Massoneria moderna nel mondo, ha celebrato con una manifestazione l’appartenenza di Majorca all’istituzione.
Una sentita cerimonia che ha visto sul palco la moglie, Maria, e la figlia Patrizia, che hanno ricevuto dalle mani del Gran Maestro Stefano Bisi, la più alta onorificenza del GOI, la “Giordano Bruno”. Un lungo ricordo di Patrizia ha suggellato il momento che era stato aperto dalla video-intervista di Leonardo D’Imporzano.
«Una lunga intervista raccolta qualche anno fa – ci dice Leonardo – che negli ultimi mesi è stata richiesta da molti, televisioni comprese e che ho donato gratuitamente e volentieri a tutti perché le parole di Enzo sono in primis un grande patrimonio per la salvaguardia, la tutela e la valorizzazione del nostro Mare, con la “Emme” maiuscola, come a lui piaceva proprio indicarlo».
(Il video della cerimonia: https://youtu.be/BACr4nVXldk?t=8m55s . L’intervista di Leonardo D’Imporzano a Enzo Maiorca: https://www.youtube.com/watch?v=Vn9C4AvTtA4)

Arriva lo scuttling triestino

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Nel ricco programma della fiera convegnistica tecnico-scientifica e sportivo-lavorativa legata al mare dal titolo “MareNordEst”, a Trieste dal 19 al 21 maggio, stanno per essere annunciate anche ulteriori attesissime novità sulle operazioni del primo “scuttling” – o “affondamento pilotato” – tutto Italiano

La Redazione

MareNordEst2017LogoRicordate la presentazione della candidatura ufficiale di Trieste a ospitare la prima (vera) operazione di scuttling in Italia? Ne parlarono i patron di TSD-Trieste Sommersa Diving, sul palco Nettuno dell’EudiShow a Bologna sabato 4 marzo scorso. Del resto i titolari dell’associazione promotrice durante l’intera fiera si prodigarono in spiegazioni e illustrazioni nei confronti di tutti i sub interessati che, passando tra gli stand, mostravano di voler conoscere le prospettive di questa operazione finalmente annunciata con la candidatura della città di Trieste.
Dopotutto, proprio Roberto Bolelli, Edoardo Nattelli e Alessandro Damico del direttivo di TSD s’erano già espressi pubblicamente manifestando la convinzione che «il Parco Navale di Trieste potrebbe in questo modo ottenere importanti ricadute turistico-economiche per la città, candidandola seriamente a ricoprire il ruolo di Capitale Europea della Cultura del Mare. Trieste sarebbe infatti la prima città italiana a dotarsi di un Parco tematico dove lo Scuttling – come già previsto da normative Europeepossa costituire oltre che un importante richiamo per il mondo subacqueo internazionale anche un innovativo laboratorio naturalistico.»
Ma poi all’EudiShow c’è stato anche ben altro, a conferma del vasto interesse che l’argomento sa suscitare tra i sub: la suddetta associazione, nel suo stand F-8, ha lanciato una raccolta firme di consenso da parte del pubblico che ha visto moltissimi volti di subacquei (i più noti come i meno conosciuti) fermarsi per registrare pubblicamente il proprio autografo di suggello all’operazione. Uno su tutti, tanto per citare un solo esempio, il più celebre: Umberto Pelizzari!
All’attualità, come aggiornamento in tema, possiamo dirvi che – per ammissione dello stesso Roberto Bolelli – «l’intera documentazione relativa al nostro back-round, acquisita in tanti anni di studio e promozione di tale genere di progettualità, è stata recapitata a Roma alla Camera dei Deputati, nel fondato auspicio che possa nascerne qualcosa di assolutamente innovativo e concreto in ambito legislativo.»

Ma basta scorrere il programma di MareNordEst di quest’anno, già ricchissimo di iniziative, dimostrazioni e incontri su tutti gli aspetti del lavoro, della scienza, della tecnica e dello sport sul mare, perché l’occhio cada e si soffermi in particolare sulla conference di sabato 20 sera, alle ore 18:30, nella sezione tematica “I Mestieri del mare”, dal titolo: «Scuttling: tecnica di affondamento di una nave a favore dell’ambiente»! Tra i relatori, loro stessi di significativo spessore, interverranno il Contrammiraglio Francesco Chionna, ex-comandante di ComSubIn (Comando subacquei e incursori della Marina Militare Italiana); il Sottotenente di Vascello Anna Tosone, autrice di una tesi di laurea proprio sul tema dello scuttling; e la biologa marina Sara Andreotti, che s’è dedicata anche a livello divulgativo a promuovere le potenzialità naturalistiche legate a operazioni di scuttling di qualità, cioè ben realizzate sotto il profilo dello studio preliminare, del contesto, delle tecniche esecutive e delle opportunità di monitoraggio successivo. Non è un caso che il tema della sua relazione sia proprio quello della “valutazione dell’impatto ambientale” circa il sito prescelto per l’operazione di affondamento guidato del naviglio in questione.
Dunque, l’invito per tutti gli appassionati di subacquea è di venire a MareNordEst 2017, presso il Molo IV di Trieste, il prossimo “weekend lungo”: dando un’occhiata al programma della tre giorni che anche noi alleghiamo – consultabile pure al link dell’evento e di Trieste Sommersa Diving http://www.marenordest.it/ – non vi sarà difficile cogliere numerosi spunti d’interesse, buoni per tutti i gusti… c’è solo il classico imbarazzo della scelta. E vedrete che, nonostante le bocche degli organizzatori vogliano restare cucite fino all’apertura dei lavori del venerdì 19 mattina, di certo poi le sorprese non mancheranno…specie in tema di scuttling!

Ultim’ora: 3 crediti formativi per i giornalisti iscritti a una delle conference!

Già adesso mentre andiamo on-line, a conferenza stampa d’inaugurazione appena conclusa, apprendiamo di un’altra notevolissima iniziativa, segno evidente essa stessa – malgrado sia potuta giungere a conferma solo fuoriprogramma – dell’interesse aggiuntivo destato stavolta da questa edizione di MareNordEst: l’Ordine dei Giornalisti ha approvato l’accreditamento per la formazione e l’aggiornamento continui di pertinenza circa la conference che si terrà sabato 20 mattina, dalle ore 10:00 alle ore 13:00, dal titolo “Migliorare il modo di comunicare il mare e le attività subacquee”, presso l’Auditorium del Molo IV… dove in tal modo ai giornalisti intervenuti verranno assegnati 3 (tre) crediti formativi del tipo non-deontologico. Esortiamo pertanto i colleghi giornalisti che vorranno partecipare a iscriversi subito tramite piattaforma SIGEF.
Noi, in ogni caso, vi aggiorneremo con approfondimenti di resoconto da questi e dagli altri maggiori eventi in programma. Restate connessi!

Torpediniera Andromeda: il ritrovamento

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La scoperta del relitto accende i riflettori della ribalta su di lui. Ma come si arriva a questo risultato? Ecco i molti dietro le quinte che conducono a un ritrovamento di rilievo. Se ne parlerà anche venerdì 26 maggio alle ore 20:30, a Mestre, presso la sala eventi del ristorante Officina del Gusto in via Paolo Sarpi 18/22, nell’incontro pubblico dal titolo “Torpediniera Andromeda: il ritrovamento”

di Cesare Balzi – foto Michele Favaron e Mauro Pazzi – foto esterne Ben Haxhiaj

Il ritrovamento di un relitto è sempre una notizia rilevante, sia dal punto di vista subacqueo, sia dal punto di vista storico e culturale. Emozione, stupore e soddisfazione: questi gli aggettivi più usati nei servizi che seguono l’annuncio e nelle prime interviste rilasciate dai protagonisti dell’impresa. A seguire tornano alla luce eventi storici avvenuti nel periodo in cui la nave era in vita e le vicende belliche che ne hanno causato l’affondamento. Ciò che spesso rimane nell’ombra, tuttavia, è il percorso seguito per arrivare alla scoperta. Vediamo quindi ora di svelare i retroscena che, lo scorso dicembre, hanno condotto membri delle Iantd Expeditions alla localizzazione e all’identificazione del relitto della torpediniera italiana Andromeda, affondata la notte tra il 16 e 17 aprile 1941 in Albania, nella baia di Vallano.

Le prime ricerche in mare.

Per stabilire con esattezza l’inizio delle ricerche dell’Andromeda, bisogna fare un salto indietro, nel dicembre 2004 quando, per motivi di lavoro, mi trasferii in Albania. Dopo qualche mese, una serie di eventi mi portarono a Valona, nel sud del Paese. Qui venni a sapere che, da qualche tempo, le autorità diplomatiche italiane sul posto, avevano avviato le ricerche per determinare la posizione del relitto della corazzata Regina Margherita, affondata l’11 dicembre 1916 nel canale tra la penisola del Karaborum e l’isola di Saseno. Mi dichiarai subito interessato ad approfondire l’argomento e disponibile a collaborare. Come tirarsi indietro? Una calda estate era iniziata e la caccia ad un relitto così importante mi sembrò un invitante pretesto per ricominciare le immersioni.
Non avendo a disposizione delle coordinate geografiche dalle quali avviare le ricerche, adottai la collaudata tecnica di interrogare pescatori locali: rimaneva la strada più sicura per ottenere delle informazioni precise, nonostante la complessità della lingua. Le vicende storiche, le fotografie in bianco e nero della nave e la mia grande passione, però, con grande sorpresa, suscitarono l’interesse di alcune persone. Tra questi, Hoti, Neki, Micio e Amet, i quali mi misero a disposizione tutto il loro supporto ed, in particolare, una pilotina di cinque metri per le ricerche in mare, con la quale, il 30 luglio 2005, individuai il relitto della corazzata Regina Margherita.
Nei mesi successivi continuai le mie ricerche lungo le coste albanesi ed emersero i nomi di tante navi italiane affondate nel corso della prima e della seconda guerra, tra questi vi era anche quello dell’Andromeda. Ma fu nel maggio 2007, quando si presentò la grande opportunità di vivere un’esperienza istruttiva a bordo di una nave di ricerca oceanografica, che, nel corso della campagna di indagini, si individuò la presenza di un relitto sul versante ovest della baia di Valona, ad una profondità di 53 metri. Dai rilievi eseguiti con side scan sonar, si osservò che lo scafo era diviso in due parti e adagiato sul fondo in una singolare posizione a V. La nave appariva spezzata al centro e piegata a libro su se stessa, con la prora e la poppa rivolte quasi nella medesima direzione. A malincuore, l’estate seguente la dedicai alla ricerca della Re Umberto trascurando quel punto.
Nel marzo 2008 sempre per motivi di lavoro, lasciai l’Albania per ritornare in Italia e, in seguito, non ebbi più l’occasione di tornare a cercare l’Andromeda.

Le ricerche d’archivio a Roma.

Nell’estate 2010, accantonati alcuni progetti, mi recai a Roma presso l’Ufficio Storico della Marina Militare. Una cortese dipendente mi consegnò una cartella contenente il fascicolo dell’Andromeda che avevo chiesto di consultare. L’aprii e vi trovai al suo interno documenti di grande interesse; primo, in ordine cronologico, il teledispaccio del 17 aprile 1941, con il quale il Comando di Valona comunicava al Comando Superiore della Regia Marina che alle ore zero dello stesso giorno, durante un intenso tiro di sbarramento antiaereo, la silurante torpediniera Andromeda, ormeggiata vicino alla costa del Karaborum a protezione di altri piroscafi e pronta a muovere, veniva colpita da un siluro ed affondava immediatamente. Una prima ricostruzione dell’attacco aereo notturno sulla rada di Valona da parte di aerosiluranti inglesi, era descritta in un foglio del DICAT, la Difesa Contraerea Territoriale di Valona, e inviato al Comando Marina Valona.
Il giorno seguente, il Comando Marina Valona trascrisse l’esposizione cronologica dei fatti relativi al siluramento e del salvataggio dei naufraghi e la inviò ai comandi di Marialbania e Supermarina. Nei fogli erano contenute, inoltre, le osservazioni in merito allo splendido comportamento del comando della torpediniera, degli ufficiali e di tutto l’equipaggio, oltre alle proposte per la medaglia d’Argento al Valor Militare per il comandante, capitano di corvetta Villani, la croce di guerra al Valor Militare a tutto l’equipaggio per la grande freddezza d’animo ed il coraggio dimostrato nel corso dell’affondamento e la promozione al grado di capitano, per merito di guerra, al tenente Luigi Giribaldi, comandante della motocisterna Sesia, al quale venne attribuito il merito di aver messo in salvo la maggior parte dell’equipaggio dell’Andromeda. L’ultimo foglio che esaminai fu la lettera del 28 marzo 1941 agli uffici amministrativi e del personale di Roma con il bilancio dei sottufficiali e marinai, che vennero considerati dispersi e deceduti, rispettivamente cinque e quarantatré.
Dopo la visita all’Ufficio Storico le ricerche di relitti lungo le coste albanesi proseguirono seguendo filoni storici legati alle navi Linz, Paganini, Probitas, Luciano e Rosandra, mentre rimase in un cassetto l’episodio dell’Andromeda. L’occasione per riaprire la vicenda si presentò a dicembre dello scorso anno, quando avviai l’organizzazione della Iantd Expedition Regina Margherita 2016, per celebrare il centenario dell’affondamento della regia corazzata. Ricordando ciò che avevo lasciato in sospeso da lungo tempo, inserii la ricerca dell’Andromeda come secondo target. Svolgere l’attività subacquea commemorativa sul relitto della Regina Margherita in un fazzoletto di mare a due passi del presunto relitto dell’Andromeda e non andare a verificare, sarebbe stata un grosso rimpianto.

Le ricerche del cannone 100/47 della OTO.

Nell’ambito dello studio dell’armamento dell’Andromeda, osservai che la torpediniera era dotata di tre cannoni da 100/47 millimetri, uno a prora e due a poppa, fabbricati a La Spezia presso lo stabilimento OTO Melara del Muggiano. Ne parlai con l’Ammiraglio Giuseppe Celeste, presidente dell’Associazione Amici del Museo Navale e della Storia della Spezia e dell’Associazione Venus, Archivio Fotografico Navale Italiano, il quale mi informò che una copia del cannone in dotazione all’Andromeda era conservato nell’area esterna delle officine ed un’altra presso il Museo Tecnico Navale della Marina Militare. Ritenni quindi indispensabile riuscire a visionarli prima di partire per l’Albania poiché, qualora avessi localizzato il relitto, il risultato del confronto tra i cannoni sarebbe stato utile per l’identificazione ufficiale della nave. Il pomeriggio del 28 novembre, l’Ammiraglio Celeste ed io varcammo la soglia dello stabilimento Leonardo Divisione Sistemi Difesa, ex OTO Melara Spa; l’ingegner Giuliano Franceschi, consigliere e membro del comitato scientifico dell’Associazione Museo della Melara e la dottoressa Alessandra Vesco, custode dell’archivio, ci stavano attendendo.
Grazie alla loro assistenza analizzai la canna dell’impianto 100/47 mm OTO, un cannone navale italiano, impiegato nel ruolo antinave e antiaereo sulle unità di superficie e sottomarine della Regia Marina, durante la Seconda Guerra Mondiale. Fissai nella mente le parti principali, che in seguito, avrei dovuto comunicare a Michele Favaron, Mauro Pazzi e Edoardo Pavia, i componenti della spedizione, incaricati di raccogliere le immagini video-fotografiche nel corso delle immersioni. Esaminai le linee geometriche squadrate dello scudo, i tratti dell’affusto e della bocca da fuoco, tralasciando l’osservazione dei componenti più piccoli, sicuro che quelli del relitto dell’Andromeda sarebbero stati coperti da incrostazioni.

La spedizione.

I giorni precedenti la spedizione trascorsero nel fervore dei preparativi, con tutti i partecipanti impegnati su tre fronti: il primo di carattere burocratico per ottenere l’autorizzazione da parte del Ministero della Cultura d’Albania a svolgere l’immersione commemorativa sul relitto della Regina Margherita; il secondo, quello logistico e organizzativo, per portare a Valona tutte le attrezzature subacquee, le miscele, un compressore della Nardi Compressori, le dotazioni nautiche per le ricerche in mare e una stazione decompressiva, tutto necessario a causa della totale mancanza in loco di diving e centri per la subacquea; il terzo, il completamento delle ricerche storiche tra l’archivio dell’Ufficio Storico e il Museo Tecnico Navale della Marina Militare, l’Associazione Venus e l’Associazione Museo della Melara.
La Iantd Expedition Regina Margherita 2016 salpò così dal porto di Brindisi con destinazione Valona alle 23.30 del 7 dicembre, ripercorrendo la rotta dei convogli italiani diretti in Albania. La spedizione era composta, oltre al sottoscritto, da Massimiliano Canossa videoperatore, Michele Favaron fotografo, Beni Haxhiaj fotografo esterni, Edoardo Pavia videoperatore, Mauro Pazzi fotografo, Igli Pustina responsabile organizzativo.
A bordo del traghetto che ci stava accompagnando a Valona, non restava che raccogliere tutte le informazioni acquisite e condividerle con gli altri componenti della spedizione. Seduti attorno ad un tavolo nel salone passeggeri, trascorremmo le prime ore di navigazione a studiare fotografie, documenti storici e disegni tecnici della torpediniera, per poi andare a coricarci nelle rispettive cabine solo a tarda ora, quando il nostro traghetto era già al centro del Canale d’Otranto.
Una volta arrivati in Albania, se non avessimo trovato le condizioni favorevoli per raggiungere il relitto della Regina Margherita ubicato in mezzo al Canale di Saseno, esposto a volte a correnti e marosi sfavorevoli, ci saremmo dedicati alle ricerche dell’Andromeda.

L’identificazione del relitto.

Il pomeriggio del primo giorno di spedizione, infatti, trascorsa l’intera mattinata per i preparativi, le cose andarono in questa maniera. Eravamo a settecento metri dalla costa del Karaborum e poco più a sud il sole stava tramontando dietro la sella di Petrunes, il valico montano attraverso il quale gli aerosiluranti inglesi, nel marzo del ‘41, irrompevano sulla baia contro le navi italiane ormeggiate in quell’area.
Accese le strumentazioni della barca, GPS ed ecoscandaglio, non dovemmo attendere molto per trovare, alla profondità di 53 metri, la sagoma di un relitto posto esattamente sulla verticale del punto geografico tenuto nel cassetto dal maggio 2007. Il pedagno filò in acqua velocemente e arrivò sul fondo dopo pochi istanti; all’estremità fissammo la boa ad alta visibilità e ci preparammo. La scelta dei gas da respirare nel corso di questa immersione era ricaduta su trimix 18/40 in bibombola come miscela da utilizzare sul fondo, oltre a un trimix 21/35 in bombola S80, e per le fasi di risalita trimix 50/20 in bombola S80 e ossigeno in bombola S40.
Scendemmo Massimiliano ed io per verificare la posizione del pedagno, la visibilità, la corrente e la presenza di eventuali ostacoli come reti da pesca o lenze. Gli accordi erano che, una volta arrivati sul fondo, assodate le condizioni di sicurezza, avremmo dato il via libera agli altri, lanciando in superficie un pallone di segnalazione. Seguimmo la cima di discesa in maniera cauta, il chiarore diminuì a poco a poco e arrivammo sul pedagno nascosto sotto un fondale fangoso alla profondità di 53,5 metri. La visibilità non era ottima, ma un’ombra alta e scura si stagliava sulla nostra destra a tre metri dalla nostra posizione. Rivolsi il fascio di luce in quella direzione e apparve il profilo di una murata di una nave. Mi accorsi di aumentare il ritmo respiratorio dall’eccitazione: l’adrenalina era al massimo. Dopo tre o quattro atti inspiratori ritrovai la lucidità e segnalai a Massimiliano che avrei portato il pedagno più vicino sul relitto, se ci fossi riuscito proprio sulla coperta della nave.
Mi alzai dal fondo e volgendo lo sguardo verso l’alto, riconobbi subito ciò che si mostrò ai nostri occhi: un cannone, dotato di scudo e con la canna rivolta verso la superficie. Il cuore allora riprese a battere ancora più forte e segnalai a Massimiliano in maniera convulsiva la presenza del cannone. Sbigottito dallo scenario che si era esibito in modo così tanto rapido e inaspettato, Massimiliano mi ricordò, che prima di continuare l’immersione, avremmo dovuto lanciare in superficie il segnale che tutto era in ordine. Durante quei pochi istanti, infatti, non avevamo osservato grossi ostacoli, se non delle pesanti reti da pesca a strascico appoggiate qua e là, ma al contrario, avevamo già entrambi il sentore che fossimo davanti al relitto dell’Andromeda.

L’immersione.

Scesero nell’ordine anche Edoardo, Mauro e Michele, lungo la cima che li avrebbe condotti a fianco al cannone in modo da sorprendere anche loro. L’affusto, la canna e il profilo geometrico dello scudo protettivo, corrispondevano fedelmente a quelle dei piani costruttivi e delle foto storiche, esaminate la sera precedente. Senza dubbio, eravamo di fronte al cannone 100/47 OTO modello 1931, con un impianto però modello 1935.
A causa della ridotta visibilità, restava da stabilire ancora se ci trovavamo nella zona prodiera o in quella poppiera della nave. La domanda trovò una risposta, dopo poche pinneggiate, quando apparve la sagoma di un secondo cannone, installato ad un livello più basso rispetto a quello appena incontrato. Ricoperti da una moltitudine di reti da pesca e da un pesante strato di concrezioni, erano installati su due piani di coperta differenti, uno superiore ed uno inferiore, orientati nella medesima direzione e con le canne elevate verso il cielo. In quel preciso istante, ognuno di noi riconobbe i due cannoni installati a poppa della Regia Torpediniera Andromeda.
Arrivati all’estremità della poppa, dove il relitto scompariva sotto una coltre di sabbia, tornammo indietro, proseguendo l’esplorazione verso il centro della nave. Dopo pochi metri, scendendo sul lato sinistro, incappammo in un altro elemento che andava a rinforzare l’identificazione. Sotto uno spesso strato di sedimento, Edoardo e Massimiliano riconobbero due tubi lancia siluri da 450 mm in dotazione all’Andromeda. Proseguendo, incontrammo una moltitudine di lamiere contorte, dilaniate e irriconoscibili, uno scenario spettrale: eravamo nel punto nevralgico, in cui avvenne l’esplosione che provocò l’affondamento. Il siluro, lanciato dal Fairey Swordfish inglese, centrò l’Andromeda sotto il fumaiolo e provocò una deflagrazione che spezzò la nave in due tronconi, strappando dalla coperta l’intero ponte di comando. Con qualche difficoltà d’orientamento seguimmo il profilo del relitto, intuendo un cambiamento di direzione di 180°, confermato dall’osservazione della bussola. In quel momento, stavamo pinneggiando verso la zona prodiera, superato un tumulto di cime d’ormeggio. Questa sezione della nave era distanziato di pochi metri da quella di poppa: in sostanza le due estremità erano orientate nella medesima direzione, come se il relitto fosse chiuso a libro. A prora apparve il terzo cannone, questa volta scoperto da reti, però con lo scudo di protezione collassato. Sopra la canna, era posata una moltitudine di stelle serpentine (Ophiotrix fragilis) e gigli di mare (Antedon mediterranea), questi ultimi crinoidi colorati che, disturbati dai fasci di luce, si muovevano freneticamente, creando una scenografia singolare. Sotto l’impianto, invece, notammo la presenza di numerosi proiettili, accatastati e ricoperti da spugne gialle e arancioni (Axinella polypoides), che, illuminate, donavano un tocco di colore all’ambiente buio circostante. Durante l’esplorazione della zona esterna il relitto, Edoardo notò un oggetto metallico, dalla forma circolare, fuoriuscire dalla sabbia poco lontano dalla murata di dritta. Una volta raggiunto e illuminato, riconobbe un particolare strumento di navigazione. Era la cuffia della chiesuola bussola di rotta, cioè la parte superiore della struttura di sostegno e di protezione della bussola magnetica, priva oramai sia del cristallo per la visione della rotta da parte del timoniere, che delle sistemazioni dei lumi per la visione notturna.

L’epilogo.

Una volta risaliti in barca, ci scambiammo le opinioni e ogni sorta di dubbio sull’identità del relitto fu definitivamente fugata. Tutti i risultati ottenuti nell’ambito delle immersioni, confermarono ciò che era da qualche tempo più che chiaro, ma le sorprese non ancora erano finite. Michele ci disse, con una grande soddisfazione, di aver riconosciuto a prora della nave, proprio in corrispondenza del tagliamare, la Stella d’Italia, la stella bianca a cinque punte che da molti secoli rappresenta la terra italiana e che viene fissata sulla prora di tutte le navi della Marina Militare, con il valore simbolico della Patria. Lo studio della documentazione video e fotografica confermò la presenza della stella: nascosta tra spugne e concrezione, spiccava quella dell’Andromeda.

Un sentito ringraziamento a tutti coloro che hanno contribuito al successo della Iantd Expeditions Regina Margherita svoltasi a Valona dal 7 al 12 dicembre 2016: Ammiraglio Giuseppe Celeste Dott. Kriledian Cipa, Ing. Giuliano Franceschi, Ben Haxhiaj cameraman, Dott. Mariglen Meshini, Igli Pustina, Dott. Fabio Ruberti e Dott.ssa Alessandra Vesco, e inoltre Ministero della Cultura della Repubblica d’Albania; Consolato Generale d’Italia a Valona; Archaeological Service Agency of Tirana; Associazione Amici del Museo Navale e della Storia della Spezia; Associazione Venus Archivio Fotografico Navale Italiano La Spezia; Associazione Museo della Melara La Spezia; Azienda Nardi Compressori Srl Montecchio Maggiore Vicenza; Federazione Subacquea Repubblica d’Albania; Fondazione Ansaldo Genova; Iantd Srl Marina di Pisa; Leonardo Divisione Sistemi Difesa; South Regional Directorate of National Culture Valona; Ufficio Storico Marina Militare Roma. L’iniziativa è stata supportata dai centri: Acquamarina – Marina di Pisa (Pisa); Acquelibere Sub – Limena (Padova); Blu Sub – Tirana (Albania); Nautica Mare Dive – Caldiero (Verona); Poseidon System Italia – Bari; Sea Dweller Divers – Roma; Sub Delphinus – Ravenna.

SERATA “TORPEDINIERA ANDROMEDA: IL RITROVAMENTO”

Per il ciclo di conferenze “Abissi, storie di uomini e di mare”, venerdì 26 maggio alle ore 20.30, a Mestre presso la sala eventi del ristorante Officina del Gusto in via Paolo Sarpi 18/22, si terrà la serata, organizzata da Abissi Underwater Photo Venice – “Città di Venezia” e Club Sommozzatori Mestre, dal titolo “Torpediniera Andromeda: il ritrovamento” con Cesare Balzi, Massimiliano Canossa, Michele Favaron, Ben Haxhiaj, Edoardo Pavia, Mauro Pazzi, Igli Pustina e Fabio Ruberti. Ingresso libero. Per info e prenotazioni 347 4644552 – 335 5975236.

Voce ai relitti

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Sorpresa! In apertura di MareNordEst il mondo politico “scopre” lo scuttling. E lo fa con risonanza: il deposito di un’interrogazione a risposta scritta presso la Camera dei Deputati da parte di un personaggio della politica nazionale. Che sia la svolta tanto attesa nel nostro Paese, dopo anni di immobilismo? Vedremo.

di Romano Barluzzi. Foto autore ed Edoardo Nattelli

Venerdì mattina 19 maggio, proprio in apertura lavori dell’edizione di quest’anno di MareNordEst intitolata “I Mestieri & i Misteri del mare”, presso il Molo IV di Trieste, davanti al folto pubblico di scolaresche, appassionati di mare, tecnici e giornalisti intervenuto per l’occasione, s’è verificata l’attesa “sorpresa”: con un’uscita senza precedenti, l’onorevole Massimiliano Fedriga – capogruppo alla Camera dei Deputati per la LegaNord – ha annunciato una sua “interrogazione a risposta scritta” rivolta al Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, esibendone il testo in diretta, concernente in buona sostanza proprio lo “Scuttling”! Ovvero – ripetiamolo ancora una volta – l’ipotesi progettuale di affondamento pilotato di naviglio dismesso e bonificato, in idonea zona di fondale marino, per finalità di rivalorizzazione ambientale. Tra l’altro, in occasione di una delle fasi successive di MareNordEst – la pulizia dei fondali – è stato poi avvisato della cosa anche il capogruppo alla Camera dei Deputati per il PD Partito Democratico, l’On. Ettore Rosato, triestino pure lui, il quale ha mostrato interesse per la questione. E ciò è solo un ulteriore elemento tra i tanti che connotano questa materia come assolutamente trasversale e bipartisan ai vari schieramenti partitici, svincolandola di fatto dall’agone politico in favore di una opportunità che avvantaggerebbe tutti.

In particolare l’interrogazione – come recita il testo – mira a sapere «per quali motivi il Ministero in indirizzo interpreta le operazioni di colonizzazione dei relitti come forme d’inquinamento marino e abbandono di rifiuti in acqua, in controtendenza rispetto ad altri Paesi europei…». Così facendo, in pratica, l’importante azione dell’onorevole mira a capire perché i criteri di valutazione circa la sostenibilità ambientale di progetti perfino già esistenti e avviati – quali il Parco Navale di Trieste – siano stati finora così restrittivi, bloccandone di fatto l’evoluzione e lo sviluppo. E ciò addirittura ignorando le acquisizioni scientifiche già avvenute in merito – richiamate nel testo stesso dell’interrogazione – i cui studi hanno evidenziato fin dal 1997 come «Le comunità marine (…) del reef artificiale, nonostante siano soggette a cambiamenti nel tempo, non si formano a scapito delle comunità presenti sul reef naturale. Le strutture artificiali vanno invece ad arricchire la produzione primaria locale e a fornire nuovi rifugi atti all’aumento e non al trasferimento di biomassa marina». «Un relitto – si legge ancora nell’interrogazione –, essendo una struttura sommersa adagiata sul substrato marino, rientra a tutti gli effetti nella definizione di reef artificiali (…)»; e ciò – aggiungiamo noi – è in linea con l’interpretazione delle vigenti normative europee. Insomma tutte le acquisizioni scientifiche esistenti vanno a implementare i dati registrati nei casi in cui – perfino indipendentemente da come siano state realizzate le rispettive operazioni di Scuttling – questi progetti hanno potuto essere portati a compimento nel mondo. Proprio la valutazione d’impatto ambientale relativa al Parco Navale di Trieste mostra come tutti gli indicatori di previsione registrino il segno positivo cioè di uno sviluppo verso la rivalorizzazione naturalistica dell’intera area. Un teatro che rappresenta – per dirla ancora con il testo dell’interrogazione – «un unicum in Italia».
Per completezza storica dobbiamo ricordare che già intorno al 2010 la questione “scuttling” aveva usufruito di un passaggio politico: è da quel periodo infatti che risultano depositate due proposte di legge, rispettivamente della LegaNord e dell’allora IDV – Italia dei Valori, peraltro mai portate avanti poi da alcuno e rimaste giacenti, proprio in virtù dell’immobilismo subentrato sull’intera faccenda.

Tornando alla cronaca di oggi, ci corre obbligo invece raccontare che, sempre nell’ambito di MareNordEst, c’è stato un altro momento che per l’elevato spessore dei contenuti e la caratura dei relatori ha costituito un po’ l’evento di punta sulla questione scuttling, e cioè la conference denominata proprio “Scuttling: tecnica di affondamento di una nave a favore dell’ambiente”, inserita nella sezione “I Mestieri del Mare”, alle 18:30 di sabato 20 maggio. In questo incontro pubblico molto partecipato il Contrammiraglio Francesco Chionna, ex-comandante di ComSubIn; il sottotenente di vascello Anna Tosone, laureata in ingegneria civile ambientale a Genova; e la dr.ssa Sara Andreotti, biologa marina con specifica competenza anche sulla zona, hanno compiutamente intrattenuto sui rispettivi settori di pertinenza con educative relazioni circa i vantaggi ambientali e le potenzialità naturalistiche connesse ai progetti di affondamento pilotato.
Il dr. Maurizio Spoto, direttore dell’AMP di Miramare a Trieste, è infine intervenuto dal pubblico puntualizzando sia in merito a un report di stampa che rilanciava improvvidamente come lo scuttling sarebbe potuto avvenire “vicino” all’AMP sia rispetto a un passo documentale fuorviante che addirittura dava lo scuttling possibile al suo interno – mentre invece è stato chiarito come devesse essere effettuato solo “all’infuori della zona B dell’AMP” – e ha comunque richiamato alla prudenza nelle deduzioni sulle conseguenze naturalistiche in fatto di affondamenti pilotati e alla necessità di studiare ancor più approfonditamente l’eventualità scuttling, rendendola anche un’occasione di ricerca continuativa dopo l’eventuale installazione del relitto, una sorta di laboratorio e di osservatorio permanente… come del resto è da sempre auspicato tra le opportunità previste dai promotori di TSD-Trieste Sommersa Diving, l’associazione proponente.
Insomma, ora la sfida è ancora più aperta, ed è una sfida di carattere culturale molto profondo, in grado di incidere positivamente e in molte zone costiere – particolarmente dell’Adriatico – sulla valorizzazione ambientale, sullo sviluppo sostenibile, sul turismo naturalistico, sul contrasto alla pesca illegale indiscriminata, sulla ricerca nelle scienze del mare e su una maggior consapevolezza dei subacquei tutti. Un cambio di mentalità nelle istituzioni, una promessa di futuro. Non più utopistica bensì mantenibile.


Mare Nordest 2017, successo con rilancio

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L’edizione di quest’anno della manifestazione Mare Nordest, intitolata significativamente “I Mestieri e i Misteri del Mare” ha voluto rendere per tre giorni Trieste la capitale europea della cultura del mare. Ricchissimo il programma di eventi e incontri che coinvolgevano le principali figure professionali orbitanti attorno all’elemento blu

A cura della Redazione.

Caratterizzata per ampia parte – come ormai da tradizione – dagli svariati tipi di attività subacquee, questa sesta edizione di Mare Nordest ha visto anche una folta rassegna di molti altri generi di iniziative comunque legate al mare. Vediamo dunque l’esito delle principali, cominciando anzitutto dalla grandissima presenza di studenti (oltre 600 già nella sola giornata inaugurale!) e di visitatori, attirati oltre che dagli stand di varie associazioni anche dalle attività didattiche e dei laboratori, dalle due rappresentazioni teatrali e dalla mostra pittorica (due novità di quest’anno), che si è aggiunta alla tradizionale esposizione delle opere partecipanti al Trofeo Internazionale di fotografia subacquea “Città di Trieste” – Memorial Moreno Genzo organizzato da TSD in collaborazione con il fotografo Emanuele Vitale, trofeo esso stesso dedicato ai “Mestieri e Misteri del mare”. Massiccia la partecipazione delle scuole anche agli incontri e alle attività didattiche svolte a cura del DMG e MNA sez. di Trieste, del WWF AMP Miramare e dell’OGS.

Particolare interesse ha suscitato la mostra – curata da Marianna Accerboni e da Giorgio Parovel di Lux Art Gallery – di opere (100 disegni e alcuni acquerelli, realizzati soprattutto tra gli anni ‘70 e ‘90) di Nello Pacchietto ritraenti spazi ed acque del nordest, da Pola a Venezia.

Del rinnovato rilancio della candidatura di Trieste a ospitare un Parco Navale con connessa prima operazione di Scuttling – affondamento pilotato – tutta italiana e del rilievo che ciò sta avendo anche sotto il profilo politico nazionale abbiamo diffusamente illustrato già in altro articolo di poco precedente a questo, ma giova tornarci per ricordare proprio l’interrogazione alla Camera dei Deputati da parte del capogruppo LegaNord Massimiliano Fedriga; l’informativa in merito illustrata in successivo momento anche al capogruppo PD alla Camera Ettore Rosato; la presentazione del progetto nel corso di un seguitissimo incontro che ha avuto per relatori il Contrammiraglio Francesco Chionna, il Sottotenente di Vascello Anna Tosone (che ha presentato la sua tesi di laurea riguardante lo Scuttling) e la biologa marina Sara Andreotti.

Il progetto, sostenuto con forza da anni dall’Associazione sportiva dilettantistica Trieste Sommersa Diving, costituirebbe, secondo i promotori – che da 15 anni ne studiano ogni aspetto, sia legislativo che soprattutto ambientale, visitando analoghe strutture attive in tutto il mondo, dall’Australia, a Malta alla Croazia – il primo esempio italiano di affondamento controllato di navi per scopi di ripopolamento delle specie marine e aumento delle biodiversità; offrirebbe perciò importanti ricadute turistiche, economiche e occupazionali per la città e allo stesso tempo benefici per l’ambiente.

All’interno della manifestazione è stato proiettato ogni giorno il trailer di 2 minuti e mezzo di “Trieste Sogna”, un corto d’animazione in via di realizzazione (per completarlo è in corso una campagna di raccolta fondi cui si può contribuire su www.kisskissbankbank.com/trieste-sogna) nato dal fortunato incontro di artisti e professionisti che lavorano a Trieste.

Grande successo di pubblico e massiccia partecipazione di volontari nell’ultima giornata (conclusasi alle 18:00 di domenica 21 maggio al Molo IV), complice la splendida mattinata sul Molo Audace e alla Scala Reale di Trieste per l’annuale pulizia dei fondali, la cosiddetta operazione Clean Water, svoltasi dalle 9 alle 11, presente anche l’assessore al Turismo del Comune di Trieste, co-organizzatore dell’evento, Maurizio Bucci. Tra i rifiuti raccolti, perfino svariati cellulari, addirittura 7 iPhone, uno dei quali l’abbiamo visto noi stessi cadere in acqua sfuggito alla presa di uno spettatore ed è stato ripescato sul fondo pochi minuti dopo da uno dei subacquei apneisti in servizio.

La III edizione dell’Operazione Clean Water, coordinata da Adriano Toffoli e Roberto Lugnani, ha visto la partecipazione di 14 associazioni con 70 subacquei e 30 volontari a terra. La pulizia dei fondali e la relativa azione di sensibilizzazione ambientale – condotta in collaborazione con lo staff dell’AMP di Miramare che, con il Direttore Maurizio Spoto e Dody Samec, ha supervisionato il lavoro di una decina di alunni della classe III A del Liceo Oberdan presentati dalla professoressa Claudia Giacomazzi – ha permesso di raccogliere anche rifiuti “particolari” come 300 bottiglie di vetro, 9 bottigliette di plastica, decine di lattine (47) e bicchieri di vetro (38), due transenne, un palo, due biciclette, un monopattino, 21 telefoni cellulari, alcuni dei quali (7) anche di ultimissima generazione, 34 esche artificiali per seppie e calamari, una decina di sacchi neri in nylon, una tenda da negozio di 20 metri, una batteria d’automobile, una patente di guida – consegnata alle forze dell’ordine – e una bottiglia di vino rosso ancora tappata con la quale si è poi brindato al successo della manifestazione.
L’AMP, presente anche con il battello ecologico Spazzamari che ha fornito supporto operativo ai subacquei impegnati nelle operazioni di pulizia dei fondali davanti a Piazza Unità, ha coordinato gli studenti, chiamati ad analizzare i materiali rinvenuti, per classificarli e valutarne provenienza e impatto ecologico ed avviarli quindi alla raccolta differenziata attraverso uno scarrabile messo a disposizione da AcegasAspAmga, che sostiene la manifestazione.

E’ seguita la spettacolare e applaudita dimostrazione in mare della Scuola Italiana Cani Salvataggio FVG nel corso della quale sono state simulate diverse tipologie di intervento con l’impiego delle unità cinofile e l’ausilio di un gommone e una moto d’acqua.
Al Molo IV si sono svolte poi le premiazione dell’operazione di pulizia III “Clean Water”: sono stati premiati il gruppo più numeroso (Calypso Scuola Sub di Venezia con 24 sub), che ha espresso pure il sommozzatore più anziano (Maurizio Bertoncelli, 62 anni) e il più giovane, Riccardo Vianello di 14.
Menzioni speciali per Pompieri Volontari Trieste e Scuola Cani Salvataggio FVG.
Premiato infine per il ripescaggio più particolare, una bottiglia di vino rivelatosi un buon cabernet, sturato per il brindisi finale, Enrico Torlo del CST.
Tra le iniziative collaterali, giova ricordare un’altra “new entry”, di tale importanza che avrà sicuramente un seguito di ancor più ampio rilievo l’anno prossimo, ossia lo stage per giornalisti “Migliorare il modo di comunicare il mare” condotto dai giornalisti subacquei Leonardo D’Imporzano e Romano Barluzzi, che l’Ordine dei Giornalisti ha inserito in piattaforma Sigef cosicché i partecipanti hanno potuto acquisire 3 crediti formativi della categoria.
Il presidente di Trieste Sommersa Diving, Roberto Bolelli ha inteso ringraziare tutte le associazioni e i volontari che hanno reso possibile il successo di questa edizione (Centro Sub Trieste, Circolo Sommozzatori Trieste, Immersione Con Caschi Professionali, Murena Diving Sport, Aquatik Dream, Caos Diver, Acquamission Trieste, Scuba Tortuga, La Triblù, Circolo Subacqueo Ghisleri, Calypso Scuola Sub, Associazone Trieste Somnmersa Diving, AMP Riserva di Miramare, Liceo Oberdan, Pompieri Volontari Trieste – presenti con due mezzi -, Croce Rossa Italiana – presente con un’autoambulanza – e Scuola Cani Salvataggio FVG). Il Segretario dell’associazione organizzatrice, Edoardo Nattelli, ha invitato infine i presenti a dedicare un brindisi a un’edizione 2018 che si promette ancora più ricca, bella e con una partecipazione più numerosa.

Mare Nordest è realizzato in co-organizzazione con il Comune di Trieste e gode del sostegno di AcegasApsAmga, Fondazione Benefica Kathleen Foreman Casali, Samer&Co. shipping, Trieste Trasporti, Bignami Sub.
Il progetto ha la preziosa collaborazione e il patrocinio di: Università degli Studi di Trieste – Dipartimento di Matematica e Geoscienze, Museo Nazionale dell’Antartide – Sezione di Trieste, Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale – OGS, Università degli Sudi di Bari “Aldo Moro”, WWF – Area Marina Protetta di Miramare, Stellenbosch University.
L’iniziativa vede la partecipazione di Trieste Sogna e di Lux Art Gallery, Trieste.
Mare Nordest gode del patrocinio della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, di PromoTurismo FVG, CONI Comitato Regionale FVG, FISPAS – Federazione Italiana Pesca Sportiva e Attività Subacquea, FIPE Federazione Italiana Pubblici Esercizi – Trieste, FAI – Fondo Ambiente Italiano Presidenza Regionale Friuli Venezia Giulia.
Media Partner IL PICCOLO e Serial Diver.
Mare Nordest ringrazia Trieste Terminal Passeggeri.
Ulteriori notizie e immagini sul sito www.marenordest.it e sulla pagina facebook dedicata Mare Nordest.

Squali a gogò!

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Diario di viaggio tra La Paz e l’arcipelago di Revillagigedo

di Francesca Romana Reinero – Foto di Sergio Riccardo

Dodici febbraio 2016, aeroporto di Roma Fiumicino. Siamo pronti per intraprendere il nostro viaggio subacqueo nell’Arcipelago di Revillagigedo. Quindici ore di viaggio per arrivare a La Paz, in Messico.
All’aeroporto Charles de Gaulle a Parigi rischiamo di perdere la coincidenza per Città del Messico, a causa di un leggero ritardo da Roma a Parigi! Dopo un viaggio interminabile eccoci finalmente a La Paz la nostra prima destinazione sulla costa messicana di Baja California.

Ovviamente, con la rinomata “fortuna” di cui godono gli italiani, ci smarriscono i bagagli all’aeroporto di La Paz. Tuttavia, nonostante l’accaduto, l’estenuante attesa di vedere le megattere non ci ha di certo demoralizzato. Riusciamo a percepire il profumo del mare anche dalle nostre stanze e possiamo goderci, dal porto, il meraviglioso paesaggio desertico che ci circonda, le montagne rosate e il mare blu davanti ai nostri occhi. I fotografi, pronti a scattare ricordi indelebili di questa vacanza, sono in posizione sulla barca, uno accalcato all’altro. Ed ecco il primo soffio di una balena e poi di un’altra ancora. Le megattere, con il loro nuoto sinuoso, aprono e chiudono l’enorme bocca ingurgitando tonnellate di plancton, danzando leggiadre sotto le chiglie delle barche, mostrando timide le loro pinne incrostate dai balanidi. Fotografarle non è facile perché l’acqua è verde ma il loro canto ci ha guidato allo scatto perfetto tanto atteso, chi con la Go Pro o la videocamera, e chi con le macchine fotografiche.
In seguito decidiamo di porre la nostra attenzione sugli squali balena, i pesci più grandi al mondo rivestiti da divertenti pois bianchi. Non sono poi così grossi di dimensione ma la loro lentezza nel nuoto e la loro tranquillità, in nostra presenza, ci consentono di filmarli e fotografarli al meglio.
Soddisfatti della nostra prima giornata, intraprendiamo la strada del ritorno verso il porto di La Paz mentre un sole rosso fuoco tramonta dietro di noi.
Riponiamo, ormai esausti, la nostra attrezzatura fotografica increduli che, quando meno ce lo saremmo aspettati, le megattere iniziassero a saltare come ballerine fuori dall’acqua mostrando tutta la loro maestosità! Quante emozioni tutte in un giorno e siamo solo agli inizi del nostro viaggio!
Il giorno seguente ci rechiamo più a nord per vedere i leoni marini e, avvicinandoci agli scogli, udiamo già i richiami di alcuni pinnipedi che oziano sotto il sole mentre altri si tuffano in cerca di prede e svago. L’acqua è particolarmente fredda ma la concentrazione è al massimo. A soli pochi metri di profondità incontriamo due simpatici leoncini che giocano e si divertono con le nostre bolle. Si girano e rigirano su sé stessi guizzando come delle meravigliose sirene afferrando, per mordicchiarle, le nostre pinne colorate, i nostri snorkel ma anche le nostre Go Pro! Per fortuna, con un po’ di dimestichezza, ho evitato di perdere la mia attrezzatura fotografica, tanto ambita e ricercata dai nostri amici pinnipedi!

Finalmente è giunto il momento di partire per l’attesissima spedizione all’Arcipelago di Revillagigedo. Da La Paz prendiamo un pulmino che ci condurrà fino a San Josè del Cabo e, durante il tragitto, non possiamo fare a meno di comprare il tipico sombrero messicano dai venditori locali. Ci aspettano “solo” 24 ore di barca dal porto di San Josè del Cabo, dove ci imbarchiamo sulla Southern Sport, una lussuosa barca attrezzata per le attività subacquee. Fremiamo al desiderio di raggiungere al più presto le isole. Dopo una giornata intera di navigazione approdiamo all’isola di San Benedicto, un enorme vulcano attivo che si erge dal mare in tutta la sua solennità. Giusto il tempo di calare i gommoni a mare e si avvicinano i primi squali seta (Carcharhinus falciformis). Ansiosi di incrociare il loro sguardo anche sott’acqua, ci tuffiamo con le nostre attrezzature fotografiche osservandoli nuotare intorno a noi, sempre più vicini, accompagnati anche da altre specie più piccole di squali pinna bianca (Triaenodon obesus).
Il giorno seguente partiamo alla volta dell’isola di Roca Partida, un piccolo scoglio di 80 metri di lunghezza e dieci di altezza nel mezzo del Pacifico, un antico vulcano ormai quasi interamente sprofondato. Sopresi dalla modestia di quest’isoletta e consapevoli della corrente e della risacca di diversi metri presenti in questo luogo, partiamo per le nostre tre immersioni quotidiane. Già a pochi metri di profondità si intravedono una serie di nicchie scavate nel vulcano, delle vere e proprie “terrazze” dove risiedono decine di squali pinna bianca, gli uni ammassati sugli altri, maschi e femmine, gravide e non. Alcuni dormono serenamente, altri cercano la posizione più comoda per riposarsi. Tuttavia la corrente non ci dà tregua e ci trasporta, come “turisti” su un pullman, lungo tutta la costa dello scoglietto di Roca Partida, facendoci fare diversi incontri con gli squali delle Galapagos (Carcharhinus galapagensis), gli squali seta, i silvertip (Carcharhinus albimarginatus) e branchi gli squali martello (Sphyrna lewini), tutti allo stesso “ritmo” e alla stessa distanza.  Ma gli squali non sono gli unici protagonisti di questo luogo poiché abbiamo avuto modo di incontrare anche tre o quattro mante (Manta birostris) di diversi metri che oscuravano il sole sopra la nostra testa, accompagnate da remore di dimensioni notevoli. Per tutto il tempo, hanno danzato e piroettato intorno a noi convogliando cibo con i loro grossi rostri posti all’estremità del capo.
Per ben tre giorni, questi sono stati i regali di Roca Partida.

A fine settimana ci rechiamo a Socorro, l’isola più grande dell’arcipelago, dove è presente solo una base militare. Le immersioni ci hanno regalato nuovamente tante emozioni, addirittura anche un simpatico delfino, a fine immersione, che ci ha salutato saltando tutto il tempo sotto il gommone, guidandoci fino al rientro in barca. Abbiamo trascorso infine il nostro ultimo giorno nuovamente a San Benedicto dove, come al solito, tre o quattro squali seta hanno girato per ore intorno alla nostra barca, in attesa che ci immergessimo insieme a loro per immortalarli in qualche scatto. Altra immersione al Boyler, una secca al largo dell’isola, dove abbiamo potuto gustare la danza delle mante giganti e, infine, al Canion, dove ci eravamo immersi al nostro arrivo, all’inizio della crociera.
Arriva il momento di salpare e riaffrontare il Pacifico fino alla terra ferma, questa volta con i venti a sfavore che non favoriscono la nostra crociera. Sfiniti dalla attraversata, abbiamo comunque deciso di trascorrere l’ultima notte a terra a Cabo San Lucas, un paesino a pochi chilometri da San Jose del Cabo. La soddisfazione dei nostri incontri marini viene coronata da un’ottima cena alla Marina di porto di San Lucas accompagnata, come di rito, da una squisita tequila messicana sale e limone…e da tanto shopping! La sveglia, martedì 23 febbraio, chiude la nostra spedizione di 12 giorni.

Siamo tutti un po’ affranti ma felici di aver visitato uno dei posti più remoti, emozionanti e unici al mondo: l’Arcipelago di Revillagigedo, le “Galapagos messicane”. 

A scuola di pesci

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Arriva il primo corso teorico-pratico di Ittiologia e Biologia della Pesca. Che in realtà può interessare (quasi) tutti i subacquei. La parola all’ideatore, l’ittiologo Francesco Tiralongo

A cura della Redazione. Foto dell’autore

Locandina 1° Corso Ittiologia e Biologia Marina 2017A qualsiasi categoria di subacquei apparteniate, apneisti o bombolari che siate, e per qualsiasi motivo andiate sott’acqua – dalla pesca in apnea, alla fotografia subacquea, alle videoriprese del mondo sommerso – vi sarà capitato chissà quante volte di incontrare pesci di cui non sapevate nulla, oppure di non sentirvi sicuri di poterli riconoscere e identificare, né di poter avvistare esattamente il pesce che avreste voluto. Ebbene, talvolta questo genere di conoscenze – sempre più richieste dal pubblico subacqueo – può arrivare dal mondo della pesca e da chi lo studia per professione. “Ittiologia”, è la parola chiave. La branca della Biologia che studia i pesci. E che può diventare punto d’incontro tra il mondo della pesca e quello dell’immersione subacquea. Vediamo come, parlandone con il dr. Francesco Tiralongo – Ittiologo – che all’interno dell’EFMM-Ente Fauna Marina Mediterranea (Associazione Culturale e Scientifica per la Tutela e la Valorizzazione dell’Ambiente Marino Costiero) di cui è Vicepresidente conduce una interessante iniziativa didattica e divulgativa di prossimo svolgimento: il primo corso teorico-pratico di Ittiologia e Biologia della pesca, dal 4 all’8 settembre, in Sicilia, precisamente ad Avola.

Dr. Tiralongo, qual è l’obiettivo del corso?
«È quello di dare a tutti i partecipanti nozioni sulla biologia ed ecologia marina mediterranea tramite attività pratiche oltreché teoriche. Ciò in quanto, a nostro parere, solamente da una stretta e ben combinata unione dei due aspetti si può giungere a un corretto e adeguato apprendimento e a un bagaglio culturale che rimanga.»

Come si svolge il corso?
«Dopo una introduzione generica sulla biologia marina mediterranea, si passerà alla identificazione delle specie in laboratorio e in mare e alla conoscenza dei loro ambienti e delle loro abitudini. Parte dell’attività è dedicata alla biologia della pesca e alle tradizioni marinare mediterranee. Le attività riguarderanno in prevalenza la fauna ittica.»

Perché tra tante tipologie avete pensato proprio a un corso di questo genere? Con un’impronta così pratica?
«Spesso, diversi appassionati, studiosi del mare e subacquei, durante i vari corsi, da quelli subacquei a quelli universitari, non hanno e non ricevono un’adeguata formazione utile al riconoscimento di quanto si può osservare in mare. Poiché invece il naturalista, l’appassionato o il subacqueo interessato alla biologia marina, desiderano, per vari motivi, conoscere quello che stanno osservando, è di fondamentale importanza avere gli strumenti e le conoscenze adeguate per comprendere e approfondire in maniera indipendente l’immensa diversità marina presente nel nostro mare, dalla zona intertidale fino al mare aperto…L’impostazione votata alla pratica agevola l’apprendimento, rendendo divertenti e attraenti anche aspetti altrimenti complessi.»

“Intertidale”… che sta per?
«È la zona di litorale – detta anche “mesolitorale” – compresa tra le escursioni della bassa e dell’alta marea… già lì dove bagniamo i piedi c’è un mondo di biodiversità, porta d’accesso per tutto il resto del mare…»

Ok, torniamo alla scuola di pesci… ci fa qualche esempio circa il senso ultimo di quest’attività?
«Certo! Uno dei casi più comuni? Parliamo dei subacquei che a fine immersione hanno visto sì parecchie cose, ma non sanno esattamente cosa hanno visto e non riescono neanche a fare una descrizione adeguata di quanto osservato e di quello che stava accadendo. Si trattava di esemplari in riproduzione? Era quella una livrea riproduttiva? Erano il maschio e la femmina? Erano in competizione per il territorio? Domande simili sono comuni. Una tale immersione di certo non è soddisfacente. Piuttosto è, almeno parzialmente, inutile.»

Che ci dice del giro in giro al mercato ittico?
«Comuni sono anche i dubbi che possono assalire l’utente durante una visita (magari mirata all’acquisto) al mercato ittico, dove può trovarsi davanti a una miriade di organismi ben diversi, alcuni dei quali simili tra loro e che possono essere spacciati per la specie più pregiata. Altre volte si tratta di prodotti importati, venduti per locali. Ecco da qui un’altra necessità di imparare a riconoscere sia le varie specie, sia la loro provenienza, ma anche la loro freschezza. Questo perché il corso, in definitiva, mira a dare a ogni partecipante le conoscenze base per conoscere e riconoscere le principali specie marine osservate nei principali ambienti marini e quelle legate alla pesca e alle tradizioni. Obiettivo fondamentale sarà rendere ogni partecipante indipendente nei suoi approfondimenti e studi futuri. Un utente più consapevole del mondo marino che frequenta.»

Concludendo, dr. Tiralongo…pur se questo primo corso viene svolto nella splendida Avola, lei lo considera esportabile e riproponibile anche altrove?
«Proprio perché adotta un’impostazione scientifica per quanto divulgativa e grazie alla metodologia pratica, può certamente essere riproposto ovunque, con i rispettivi adeguamenti di zona, di logistica ecc. E anzi noi contiamo proprio che in seguito diventi ubiquitario, itinerante, insomma che ce lo richiedano in giro. Saremmo lieti di espandere la divulgazione di questo genere di conoscenze, siamo convinti che incontrino la loro migliore efficacia proprio nella diffusione e nella condivisione.»

CONTATTI PER INFO E ISCRIZIONI AL CORSO

Docente del corso: Dr. Francesco Tiralongo – Ittiologo – Vice Presidente EFMM
mail: info@entefaunamarinamediterranea.it; fra.tiralongo@hotmail.it;
web: www.entefaunamarinamediterranea.it (sezione Corsi) – Programma completo
cell: 3891522738
Per i giorni necessari allo svolgimento del corso è possibile prenotare presso strutture convenzionate con l’Ente.
Per motivi organizzativi le iscrizioni sono aperte fino al 20 Agosto 2017.
2 degli 8 posti disponibili sono riservati agli iscritti AIGAE (verranno riconosciuti 4CFP)
Alla fine del corso verrà rilasciato attestato di partecipazione. Per gli iscritti AIGAE, tale attestato dà diritto appunto a 4CFP.

IL MUSEO DEL MARE DI VILLASIMIUS

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Musei e ambiente sempre di più attrattive turistiche

di Mario Genovesi

È stato inaugurato in Sardegna, a Villasimius, il Museo del Mare alla presenza del ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti. Allestito all’interno dei locali di “Casa Todde”, antica casa padronale costruita nella seconda metà dell’ottocento e che ospita anche l’Area Marina Protetta Capo Carbonara, il Museo è stato realizzato grazie alla donazione di circa 700 pregevoli pezzi da parte della vedova di Giorgio Capai, sig.ra Candida Pusceddu, legata da un sentimento forte verso questa località.

Soddisfatti in particolare sia il sindaco, Gian Luca Dessì, che ha seguito in prima persona questo progetto che arricchisce Villasimius di un altro sito storico di straordinario interesse, sia il direttore della A.M.P. Fabrizio Atzori che ne ha curato anche l’allestimento. Circa un anno fa il ministro Galletti, in visita a Villasimius, aveva assicurato il proprio impegno a favore della nascita di questo museo, impegno mantenuto con l’erogazione di un contributo all’Area Marina Protetta che in questo modo, oltre ai compiti di tutela e di conservazione dell’ambiente, arriva a svolgere funzioni di attrattiva per il turismo diventando anche Centro di Educazione all’ambiente e alla sostenibilità accreditato dalla Regione che si propone come obiettivo l’educazione al rispetto dell’ambiente con particolare attenzione alla conoscenza e alla cultura del mare.

In questo modo musei e ambiente diventano attrattive turistiche e conservazione, tutela e turismo sono sempre di più la faccia della stessa medaglia. Perché il turismo venga abbiamo bisogno di conservare bene e per conservare bene abbiamo bisogno di regole e i parchi servono proprio a questo”, queste le parole del Ministro Galletti all’inaugurazione.
La Collezione Capai-Pusceddu si è formata negli anni grazie alla curiosità, alla passione per il collezionismo e all’amore per il mare dell’armatore Giorgio Capai e della consorte, Candida Pusceddu.

Gli oggetti esposti, oltre che di grande pregio, esprimono nella loro autentica bellezza, la grande e infaticabile ricerca del “bello”, riferito al mare, dei coniugi Capai Pusceddu, attuata in anni di lunghi e, a volte, avventurosi viaggi in tutto il mondo.
Tra i pezzi esposti: bussole, ruote di timoni, fanali, uno scafandro del 1916, sestanti, grafometri, ancore, barometri, termoigrometri, astrolabi, orologi, binocoli, oblò, lanciarazzi, modellini di imbarcazioni e arredi di pregio.

Piccoli sub crescono

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Può apparire inconsueta la formula di proporre corsi per baby-sub in un villaggio turistico sul mare. E allora vediamo come funziona e perché sta avendo tanto successo quella organizzata presso il Nicolaus Club Fontane Bianche di Siracusa. Chissà, magari certe agenzie didattiche ci troverebbero qualcosa da imparare.

Di Romano Barluzzi. Immagini Chiara Scrigner e Lorenzo De Mari

Concepire corsi – ma preferiremmo chiamarli “esperienze di subacquaticità” – per bambini a partire dai 3 anni d’età forse al giorno d’oggi non è più del tutto una novità inedita, ma di certo resta una rarità assoluta. Dopotutto, ci sono svariate agenzie didattiche che – a partire dalla stessa Fipsas, la federazione del Coni che racchiude pure la didattica delle attività subacquee – comprendono nei loro programmi formativi, sebbene a età minime differenti, livelli diversificati di proposta educativa per mini-sub, sia in apnea sia con autorespiratore. Anche se dai 3 anni non ce ne risultano, ad eccezione forse solo di ANS-Apnea National School, tuttavia dedicata esclusivamente all’apnea.

Eppure ciò cui abbiamo assistito nel citato villaggio vacanze pare andare oltre. Anzitutto qualche numero – perché a noi adulti piacciono tanto i numeri – giusto così, per rendere l’idea: oltre 100 bambini fino a questo momento (si prevede si raggiungeranno i 150 in totale a fine stagione) “brevettati” novelli minisub; a fronte di un globale di oltre 400 “battezzati”, cioè fatti solo “provare” per saggiare il livello di spontaneità nell’adesione; età comprese tra un minimo di 3 anni e un massimo di 12. Durata del corso – inserito in una settimana, dall’accoglienza al saggio finale – 4 giornate di lezioni pratiche in piscina. Dulcis in fundo, almeno una ventina hanno poi richiesto di provare anche in mare! Richiesta puntualmente soddisfatta. Come la scelta foto di questo articolo testimonia al meglio, unitamente alla videoclip inedita che potete vedere qui sotto.

Ma il nocciolo della questione non è nei numeri che piacciono tanto agli adulti. È nel sorriso, nelle parole e nelle emozioni che i bambini esprimono – ognuno a suo modo – mentre sperimentano la novità della maschera, delle pinne, del primo respiro fatto sotto la superficie dell’acqua. La sintesi è nella qualità dell’approccio, non nella quantità. E la subacquaticità conferita è a tutto tondo: il programma comprende dal corpo libero all’apnea, fino al mini-respiratore ad aria, con tutte le attrezzature connesse.

Gli esperti di pedagogia parlerebbero di acquisizione di nuovi schemi motori, anche perché in effetti di educazione motoria di base si tratta, come imparare a andare in bicicletta, a saltare, a calciare, a correre e a nuotare; disquisirebbero di comparsa e sviluppo delle capacità coordinative; delle età correlate; della maggiore o minore idoneità delle attrezzature impiegate. Tutto vero. Noi però ricordiamo più volentieri di aver visto direttamente bimbi divertirsi a imitare i pesci. A pilotare un trattorino appesantito apposta per stare al fondo quel tanto che basta. A giocare alla caccia al tesoro per ritrovare e recuperare oggetti sott’acqua. Ad accarezzare le alghe. Già, “giocare”: la parola magica! La porta d’accesso per scoprire e capire ogni cosa, a quell’età. Quanti adulti ricordano tutto questo?

Eppure, per apprezzare ancora di più il potenziale insito in questo genere di attività, basterebbe pensare che l’adulto neofita che per la prima volta si cimenta con l’immersione si trova nella stessa identica condizione interiore del bimbo alle prese con un nuovo gioco educativo. Nessun’altra attività, nel corso della vita, espone a questo confronto con sé stesso l’adulto allo stesso modo di quanto avvenga nel bambino. Ciò significa che le tecniche di approccio all’acqua e in particolare alla subacquea da utilizzarsi nell’adulto si avvantaggiano molto dell’esperienza maturata con i bambini per l’elementare ragione che sono simili! Ma quanti operatori e istruttori d’immersione lo sanno o ci pensano?

«Più che di cose nuove si tratta di reinterpretazioni di metodiche alla luce delle conoscenze di oggi e dell’esperienza pratica di tanti anni sul mare: la base di partenza affonda le radici in una serie di corsi che il Club Sommozzatori Padova faceva già oltre 25 anni fa (i programmi baby-sub dell’istruttore Luciano Meneghini, allora primi in Europa)! Prima ancora che qualsiasi agenzia formativa o federazione si spingesse anche solo a parlare di didattica per minisub. Per il resto si tratta di adeguamenti per rendere tutta l’attività ben contestualizzata nella realtà del villaggio turistico…», parola di Emanuele Vitale, l’istruttore direttore dell’iniziativa.

In un contesto come quello del villaggio turistico incontra la sua migliore interpretazione il fenomeno in base al quale a ogni bambino felice corrispondono almeno due genitori contenti e spesso anche altri adulti di riferimento: le scene di entusiasmo collettivo cui si assiste durante il saggio finale in pubblico, i post di apprezzamento su Facebook dei giorni dopo, i ringraziamenti agli straordinari operatori dello staff – veri educatori-animatori – rendono solo una vaga idea di cosa succeda. Di che potenziale esprima l’opportunità di veicolare le attività subacquee in questo modo.

«Con questa iniziativa abbiamo perfino recuperato all’attività subacquea moltissimi genitori che magari non facevano più immersioni da anni e solo per la prospettiva di poterne rifare con i propri figli si sono riavvicinati a questo universo, con evidente soddisfazione…», raccontano praticamente all’unisono i componenti dello staff del Club Sommozzatori Siracusa, l’associazione sportiva cui si devono l’organizzazione, la promozione e lo svolgimento di questa singolare esperienza. Che speriamo incontri il seguito e la continuità che merita.

Chiedi chi è il migliore…

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La presunzione e l’arroganza nella subacquea

di Giorgio Anzil. Crediti foto nelle didascalie

Facciamo un piccolo passo indietro nella Storia, partendo dalla subacquea moderna, quella che è poi diventata accessibile a tutti e non solo più ai super uomini e, senza entrare troppo nei dettagli – quelli possiamo lasciarli agli storici o a chi vuole approfondire per se le informazioni –, scopriamo che la Francia e l’Italia hanno contribuito non poco allo sviluppo della stessa.
Durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale vengono fatte diverse scoperte in merito e nel 1948 Duilio Marcante, assieme a Luigi Ferraro danno vita al metodo didattico italiano. Solo nel 1959 viene fondata la CMAS “Confederazione Mondiale delle Attività Subacquee” e la NAUI “National Association of Underwater Instructors”. Nel 1966 veniva alla luce la PADI “Professional Association of Diving Instructor”. Le ultime due sono didattiche americane di cui la seconda di grande successo internazionale. Oggi nel mondo si conosce la subacquea americana e “forse” solo quella. Dobbiamo prendere atto che hanno progredito, evolvendosi come nessun paese al mondo ma questo grazie anche ad una cultura e un potere economico lontano dalle nostre possibilità: loro hanno nel DNA la ricerca scientifica costante, l’investimento sulle persone e un potere economico invidiabile! Ma queste sono cose che noi italiani sappiamo, non sarà un caso la fuga di cervelli all’estero.
Queste differenze hanno creato un vuoto negli ultimi decenni, portando a una guerra fredda tra chi era a favore o contro gli esterofili. Per “vuoto” intendo quello culturale, dove chi conosceva la Storia la custodiva, ma senza adoperarsi per riscriverla, chi la stava riscrivendo si sentiva elitario. Le schermaglie proseguivano tra chi faceva mesi e mesi di allenamento in piscina senza vedere le bombole e chi prendeva un brevetto con abili professionisti in una settimana. Forse tra questi abili professionisti qualcuno ometteva di comunicare al proprio allievo di proseguire la sua formazione a “casa” magari appoggiandosi ad altri bravi professionisti (a questo titolo ricordo un bel progetto nato nel 2004 per permettere ai subacquei “silenti” di rivedere le proprie capacità venendo affidati a scuole affiliate).
In tutti questi anni, migliaia e migliaia di brevetti sono usciti dalle varie didattiche in giro per il mondo, portando si qualche innovazione, maggiore sicurezza e conoscenza delle problematiche che possono coinvolgere i neofiti come i veterani, ma, almeno in Italia, le normative sono rimaste al palo (basti pensare che non è ancora obbligatorio possedere un brevetto per fare subacquea). Certo, i diving più seri richiedono un brevetto, alcuni l’assicurazione e pochi una certificazione medica di idoneità, ma una vera legislatura in merito non esiste. Già, non esiste!

WKPPUn bel giorno degli anni ’80 un piccolo gruppo di subacquei, ben finanziati e con la necessità di scoprire e studiare nuove cose (guarda caso torniamo al famoso DNA citato sopra) approfondisce alcune tecniche per garantirsi procedure sicure e standardizzate, ed è da qui che il WKPP – Woodville Karst Plain Project – nella figura di William Hogarth Main pontifica la Subacquea 2.0 portando una innovazione che in Italia si comincia ad accettare e comprendere oggi. Alcune citazioni famose di Hogarth: «meno è meglio», «se non ti serve non portarlo» e «quello che non c’è non si rompe». Man mano che faceva seguaci in giro per il mondo, questo nuovo approccio alla subacquea (voi chiamatelo come volete) distoglieva dalla guerra fredda tra didattiche americane e le affiliate alle confederazioni mondiali – un po’ come con i meridionali al nord quando iniziarono ad arrivare gli extra comunitari – trasformando lo scontro tra subacquei ricreativi standard (dove ci trovavi sia i PADI che i CMAS e tutte le altre didattiche) e subacquei hogarthiani (poi abbiamo ancora i DIR). Nel mentre una legislatura subacquea VERA continuava a latitare!
Ora siamo nel nuovo secolo e la legislatura continua a latitare! Ma non latitano i pontificatori del “io sono il più bravo e il più figo”, oppure i “parli parli, poi guarda come sei messo” o quelli che danno il peggio di se davanti ad una tastiera. Ormai con l’avvento dei social si legge di tutto. Per fortuna ci sono anche quelli che sposano la frase: «pochi sono coloro che possono dare del tu al mare, e quei pochi non lo fanno».
Purtroppo le nuove generazioni non avranno quei nonni Omerici, pronti a raccontare le gesta impossibili dei nostri Duilio o Luigi e nemmeno del nostro caro Enzo, perché l’attuale generazione avrà da raccontare di come si alzava la voce sui social per criticare i comportamenti – ma più spesso le intenzioni – altrui. Come sarebbe bello se solo tutti noi si facesse un passo indietro e si tornasse a vivere al meglio un mondo che alla fine non ci appartiene, immaginando una VERA, SERIA ed EFFICACE regolamentazione che ci permetta di vivere al meglio una passione in SICUREZZA e faccia si non ci sia in Italia un altro 11 Giugno 2016 che per fortuna non terminò come la storia di Thomas Joseph Lonergan e Eileen Cassidy nel Gennaio 1998 …episodi noti, paragonati a un altro accaduto di recente che, tra un misto d’assurdità e d’allucinazione, per fortuna è finito bene! Ma di questo riparleremo. Restate connessi! (In ogni caso, appena ci sarà la sentenza, sarà nostra cura renderla pubblica.)”

Lampedusa

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#divinglampedusa #wildtuna
Patrimonio meraviglioso da salvaguardare.

Di Lara Olmi e Giorgio Anzil. Foto di Mirko Mirabella

Quale posto migliore che un’isola per riuscire a rigenerarsi in poco tempo, recuperare le forze dopo un anno di lavoro e trovare acque turchesi per fare un po’ di bolle? Detto fatto, spingendosi nel punto più meridionale d’Italia emerge dalle acque la splendida isola di Lampedusa.
L’isola si presenta nella costa settentrionale con imponenti falesie che scendono a picco sul mare – con decine di grotte semisommerse – mentre a sud la costa si distende dolcemente verso il mare, articolandosi in baie, calette ed insenature. L’aeroporto, su cui volano direttamente da maggio a ottobre molte compagnie dalle più importanti città italiane, è ad un passo dal centro nevralgico dell’isola, in cui si snoda Via Roma, piena di negozi, ristoranti e rinomate gastronomie. Vicinissimi al centro si trovano anche il Porto Vecchio e il Porto Nuovo, dove sono ormeggiate piccole imbarcazioni da noleggiare ma anche caicchi, catamarani e barche per gite full day intorno all’isola.
Proprio al Porto Nuovo, ha sede – lungo la banchina principale – Wild Tuna, vicino ad una nota e golosissima pescheria-gastronomia dell’isola.
Wild Tuna nasce “ufficialmente” nel 2016, con l’acquisto della splendida barca, omonima del diving, che con i suoi 13,6 mt offre comodamente spazio di movimento a 13 subacquei e ai 3 membri di equipaggio. La recente data di costituzione del diving non deve però trarre in inganno: Vincenzo, Mauro e Costanza (rispettivamente provenienti da Palermo, Napoli e Milano) vantano tutti esperienze pluriennali nella subacquea in giro per l’Italia e all’estero, ma alla fine sono stati rapiti ormai da oltre sette anni in quel di Lampedusa…e come dargli torto? Acque splendide e temperate (una media di 27 gradi quest’anno ad agosto senza termoclino fino a 40 mt), visibilità di oltre 25 mt, magnifiche formazioni corallifere, un mare ricco di pesci: ricciole, cernie, barracuda, tonni, centinaia (e centinaia e centinaia) di castagnole… in quel di Lampione si possono incontrare esemplari di squali, anche se durante le battute di pesca incessanti delle nottate agostane preferiscono allontanarsi e rifugiarsi probabilmente presso altri lidi più tranquilli.

Nella traversata da Lampedusa a Lampione (circa un’ora e mezza di navigazione) è molto frequente incontrare delfini e tartarughe.
L’atmosfera che si respira sulla Wild Tuna Boat è sempre piacevole e divertente: Vincenzo, Mauro e Costanza sanno coniugare esperienza, professionalità e grande disponibilità, caratteristiche essenziali per trasmettere grande serenità anche ai neofiti che provano a fare le prime bolle, e che si lasciano accompagnare da loro per trial che consentono davvero di provare l’emozione del blu.
Il diving è ovviamente attrezzato per noleggiare attrezzatura e per fare corsi, che si svolgono nelle acque cristalline di Cala Pisana, dove sono naturalmente presenti diverse profondità che consentono sia gli esercizi in acque confinate che in acque libere.
Prima di partire, da non perdere una tappa alla Spiaggia dei Conigli, area presidiata da Legambiente:è l’unico sito italiano dove le tartarughe marine Caretta Caretta regolarmente ogni anno depongono le loro uova.Un paradiso del mondo naturalistico che fa sembrare l’isola un eden tropicale, dove la bellezza del paesaggio, si fonde con piante, animali ed un mare di un colore turchese straordinario.
Una breve riflessione: Lampedusa fa parte dell’“Area Marina protetta Isole Pelagie”, vale la pena di ricordare però che è necessario continuare ad investire in modo convincente nella protezione dei fondali e degli habitat costieri dell’arcipelago delle pelagie, che sono tra i più interessanti del Mediterraneo, perché caratterizzati da un’accentuata ricchezza e diversità delle specie presenti: uno dei baluardi italiani in cui vedere pesci pappagallo (arrivati a Lampedusa dopo l’apertura del canale di Suez), dentici, saraghi, murene, estese praterie di posidonia, aragoste, vermocani, nudibranchi e bellissimi spirografi.
E’ importante trovare un equilibrio sano tra l’attività di pesca, sostentamento e linfa vitale dei lampedusani, e la salvaguardia di una ricca vita sottomarina, straordinario catalizzatore di attenzione e di turismo subacqueo. Nell’ambito della protezione dei fondali ad esempio,predisporre boe di ormeggio nei più noti punti di immersione, evitando che i diving siano costretti a gettare l’ancora, potrebbe già essere un primo passo per tutelare un patrimonio meraviglioso che la natura ci ha regalato e che vorremmo restasse intatto anche per le future generazioni.


Il Cariddi, un relitto tutto italiano

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Una storia d’incuria e abbandono intorno a una nave affondata in porto. Oggi così inclinata da avere la poppa quasi in superficie e la prua appoggiata a – 40 m. Vediamo di saperne di più, specie sul perché possiamo parlare di una sorta di vergogna nazionale.

di Claudio Budrio Butteroni. Foto di Michele Lorenzini.

Un bel giorno, senza dire niente a nessuno, me ne andai da Roma e mi imbarcai su un traghetto battente bandiera Italiana. Feci due volte l’attraversamento dello stretto e non riuscii mai a capire…dove fosse quel relitto di cui avevo tanto sentito parlare: il Cariddi, un traghetto affondato all’interno del porto di Messina, la cui storia è una vergogna tutta italiana.
E’ stato un traghetto di tipo ferroviario costruito nel 1932 dai Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Trieste per conto delle Ferrovie dello Stato ed effettuava il collegamento tra la Calabria e la Sicilia attraverso lo Stretto di Messina. La nave fu innovativa per avere un sistema di propulsione tipo Elettro-Diesel. Il 16 agosto 1943 durante la Seconda Guerra Mondiale, per impedire che il materiale bellico trasportato cadesse nelle mani degli alleati, venne autoaffondata; il recupero e il riposizionamento in assetto di galleggiamento avvennero nel 1949; furono un’opera titanica per l’epoca, e vennero accolti da grandi festeggiamenti. Trasferita alla Spezia, la nave fu sottoposta a una totale ristrutturazione che comportò l’allungamento dello scafo di circa 11 metri, l’aggiunta di sovrastrutture e di un quarto binario per aumentarne la capacità di trasporto. Rientrò in servizio nel dicembre del 1953 ed operò fino a gli anni 80 quando la comparsa di imbarcazioni di nuova concezione e dotate di rinnovate tecnologie, ne rese via via sempre meno frequente l’utilizzo. Alla proprietà pervennero richieste di acquisto a vario titolo, tutte rifiutate in quanto il Cariddi era ritenuto patrimonio culturale del territorio. Tra le più autorevoli, quella della Fondazione del Museo Cousteau del Principato di Monaco, che offrì quasi due miliardi di vecchie lire per l’acquisto della nave da destinare a museo del mare itinerante. Nel 1990 venne definitivamente alienata e nel 1992 viene acquistata dalla Provincia di Messina per trasformarla in un museo galleggiante, ma nulla fu fatto; una triste storia di appalti non onorati comportò il mancato decollo del progetto. Lasciata all’abbandono e all’incuria, negli anni venne depredata e spogliata. Il 14 marzo 2006 la Cariddi affonda nello specchio d’acqua antistante al molo degli ex Cantieri Navali Picciotto all’esterno del porto di Messina dove era ormeggiata da diversi anni.
Programmo allora una sosta supplementare a Scilla. Qui la mia famiglia potrà concedersi un’ultima giornata di mare, mentre io raggiungo il vicino abitato di Cannitello dove ha sede lo storico diving “Un Tuffo nel Blu” di Franco Amadeo. Quattro chiacchiere – di rito quando ci si presenta a un diving per la prima volta – e l’appuntamento è fissato per l’indomani alle 9:00.

Ho sempre sentito parlare della “corrente dello stretto”. Ho già fatto un’immersione sul Valfiorita ma, come dice Franco, lì non è lo Stretto, per cui non so cosa aspettarmi.
La mattina successiva raggiungo il diving all’orario prestabilito e i preparativi già fervono.
Conosco i miei compagni d’immersione per quella giornata: Michele Lorenzini e Cinzia Cattaruzza, cui poco dopo si aggiungerà Dario Polimeni, fidato conoscitore dei fondali dello stretto e nostra guida per questa giornata…
Il mio sguardo cade sul mare. Una forte corrente investe il gommone ormeggiato a pochi metri dalla riva e gorgoglia in corrispondenza del gambo del motore generando riccioli d’oro. Il biondo Tevere non potrebbe fare di meglio.
Pronti, partenza e via… Franco si tuffa in mare una decina di metri a monte del gommone e, mentre la corrente lo trascina, riesce a coprire i pochi metri che separavano il natante dalla riva. Lo raggiunge e si aggrappa alla cima di ormeggio per non farsi trasportare via.
Carichiamo le attrezzature e in pochi minuti attraversiamo lo stretto fino a raggiungere il porto di Messina.
Il Cariddi è lì, adagiato in prossimità di un molo, sul cui lato opposto un traghetto già scalda i motori. La sua poppa emerge a pochi metri dalla battigia.
Un breve briefing e si parte.
Franco rimarrà sul gommone a supervisionare le nostre attività; in questa immersione, tutto sommato semplice, la difficoltà può scaturire proprio una volta usciti dall’acqua, per cui si assume l’onere di gestire il momento più delicato dell’immersione.
Avremo l’onore di essere accompagnati e guidati nella nostra immersione da Dario.
Il tempo a nostra disposizione è di trenta minuti,
Il fondale in quel punto è sorprendentemente ripido. Mentre la poppa, poggiata sulla sabbia, emerge dall’acqua, la prua a centoventi metri di distanza, è invece adagiata a circa 40 metri di profondità.
Ne consegue un relitto fortemente inclinato verso prua e sbandato sul lato di sinistra.
L’immersione comincia percorrendo il ponte superiore per tutta la sua lunghezza fino a raggiungerne la fine. Da qui ci si lascia cadere nel vuoto fino al ponte di carico. Qui sono ben visibili i binari dei treni e gli scambi ferroviari. Iniziamo a ripercorrerlo in direzione della poppa. L’ambiente è completamente buio. Giunti circa alla metà della sua lunghezza intercettiamo le scale che conducono ai ponti superiori.
Ne prendiamo una che ci conduce al ponte passeggeri. Da qui ci spostiamo sui corridoi esterni che percorriamo nuovamente in direzione della prua riguadagnando profondità.
La forte inclinazione del relitto, abbinata alla morfologia dei ponti, ci obbliga a un profilo d’immersione con ripetuti cambi di quota, cosa che non è proprio il massimo per chi utilizza un apparato a circuito chiuso, ed io mi vedo costretto ad agire di continuo sull’assetto dei sacchi contropolmone.

Sotto la sapiente guida di Dario ci addentriamo nei corridoi del traghetto. Tutto attorno a me scorre veloce. A differenza di altri relitti affondati in circostanze improvvise, qui si respira ovunque aria di abbandono. Gli ambienti da noi visitati sono certamente quelli più esterni e facilmente accessibili, e forse proprio per questo risultano tutti completamente vuoti, depredati. L’eccellente trasparenza delle acque siciliane, contribuisce a illuminare e a dare risalto a questo senso di vuoto e di abbandono che mi attanaglia.
Persino la cabina del comandante è ridotta a uno stanzone privo di stigliature e di strutture, circostanza che lo rende più simile a un salone delle feste.

Usciti di nuovo sul ponte superiore lo attraversiamo perpendicolarmente. Sopra di noi il fumaiolo, su cui la scritta F.S. campeggia ancora fiera. Rapito da questo paesaggio mi lascio sorprendere da uno spintone che mi colpisce da dietro. Davanti a me vedo tutti i miei compagni d’immersione….mi volto ma non vedo nessuno. Cerco di comprendere ma poi dimentico.
Pochi istanti dopo Dario ci conduce in prossimità della murata di sinistra e ci fa segno di seguirlo all’esterno del relitto.
Raggiungiamo nuovamente il fondo e da qui risaliamo costeggiando lo scafo del Cariddi fino a raggiungere l’elica di destra e la pala del timone, situate a pochi metri di profondità.
Ci concediamo il tempo di girare qualche immagine e scattare qualche foto; abbiamo sforato il runtime programmato di 10 minuti, ma il gommone è li a pochissimi metri da noi.

Usciamo dall’acqua e risaliamo sul gommone giusto in tempo per apprezzare quello che la natura ci sta regalando. La corrente dello stretto, come un fiume in piena, si sta riversando in corrispondenza della poppa del traghetto, con una violenza tale che avrebbe impedito a chiunque di raggiungere la riva distante solo qualche metro. Mentre noi ci spogliamo delle nostre pesanti attrezzature, il gommone all’ancora vibra sotto i nostri piedi, spinto delle acque.

La corrente si è spostata, come previsto, dalla costa calabrese a quella siciliana. La mia sensazione di essere spinto non era altro che la prima ondata di corrente, che rappresenta un avvertimento di quanto stava per arrivare, e Dario, avendola anche lui avvertita, ci ha subito condotto sul fondo al riparo dello scafo del Cariddi stesso.

Il ricordo di questi momenti lascia in me un profondo senso di tristezza. Il Cariddi rappresenta e raccoglie in se l’essenza delle contraddizioni del nostro Paese. Un paese capace di grandi opere d’ingegneria per strappare una nave ai fondali su cui è adagiata, capace di conferirle onorificenze come “nave d’interesse storico” ma capace anche di lasciarla cadere nell’oblio fin quando essa stessa decise di togliere il disturbo adagiandosi sul fondale dello stretto.

I delfini del Plemmirio

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Un tuffo nel regno dei grandi pelagici insieme ai più incredibili esseri giocolieri del blu. Specchiandosi nel loro sguardo.

A cura di Romano Barluzzi. Immagini video di Chiara Scrigner

Quanto si è scritto sui delfini? Oceani d’inchiostro, anche da prima che l’inchiostro esistesse. Da sempre. Eppure trovarcisi insieme è differente. Se poi accade nel loro ambiente naturale – e per di più in Mediterraneo, cioè non davanti a un comodo resort di mari tropicali all’altro lato del globo – la faccenda prende un sapore proprio speciale. Sapevo già tutto quello che m’era stato possibile imparare della loro anatomo-fisiologia. Sapevo del loro respiro e della loro apnea, del loro sangue caldo e perfino del loro sonno. Già ero stato incantato dalle registrazioni del loro vocío. E sapevo della loro pelle particolarissima – le cui modificazioni idrodinamiche permettono loro le prestazioni natatorie che li hanno resi proverbiali – per averla perfino toccata. Successe dentro un acquario e tanto bastò per farmi restare nell’animo il ricordo indelebile di quella carezza pur così fugace. Quel che ancora non sapevo, una sera che ci siamo diretti fuori dal Plemmirio per diverse miglia, era che sarei potuto entrare in mare aperto in loro presenza. In mezzo a loro.

Anche di questo avevo sentito un po’ tutto e il contrario di tutto. Il delfino ha una natura di scaltro predatore e la gente di mare, al pari degli studiosi esperti, non ha mai scommesso che quell’immagine un po’ sdolcinata che tanta televisione e filmografia ci hanno fin da bambini propinato – con quella diseducativa tendenza a umanizzare per forza tutti gli animali – corrispondesse completamente al vero. Così si rincorrono anche racconti sull’aggressività e l’impulsività di questi cetacei, quasi al pari di quelli sulla loro socievolezza e affinità per gli umani. Di certo c’è che il comportamento di chi di mare ne sa di più per esperienza diretta è quantomeno cauto. L’atto stesso di buttarsi in acqua quando si è al cospetto di un banco di delfini viene soppesato e quasi sempre sconsigliato dai conduttori delle imbarcazioni, specie se in presenza di molti “cuccioli”.

Ma, vuoi la complice compagnia umana a bordo, vuoi i colori del tramonto sul faro di Capo Murro di Porco, mi decido a entrare in mare, non appena il capobarca dà il suo disco verde, in seguito a una abile quanto paziente strategia di reciproco avvicinamento col banco di cetacei. Che ora sbucano pacatamente da ogni direzione, forando una superficie talmente liscia da sembrare immobile. Subito prima di entrare mi coglie un solo pensiero, del quale non so nemmeno la veridicità: “beh, in fondo, se ci sono loro (i delfini), vuol dire che non può esserci nessun altro…”. Già, perché trovandoti sopra un chilometro di profondità, proprio in quel punto, in un’ora in cui l’angolazione dei residui raggi solari è talmente acuta da non farli più penetrare sott’acqua quasi per nulla, così che guardare sotto permette di scrutare un blu così cupo e limpido da perdercisi dentro, lì per lì non fa un effetto molto rassicurante. Né basta a confortarmi che a entrare in acqua siamo in tre. Dopotutto si tratta d’uno spazio di mare in cui è stato già avvistato un vario assortimento di animali di taglia (balene, capodogli, orche, tartarughe, aquile di mare ecc), del quale anche lo squalo – compreso il grande bianco – fa parte. E in quel blu in cui in quel momento non riesci nemmeno a immaginare cosa mai possa esserci, per quanto ti sembra immensamente “vuoto”, all’improvviso senti qualcosa.

E’ l’eco dei loro “click” e dei “fischi”, le sequenze sonore che emettono e ricevono. I messaggi che si scambiano in quell’immensità, anche senza vedersi. Poi eccoli! Ne arrivano due, come materializzati dal nulla. Un attimo dopo sono quattro. Solo allora cominci a realizzare che quel che ascoltavi non è un chiacchiericcio: hai la netta sensazione dell’essenzialità del loro parlare. E senti che è proprio di te che stanno parlando. Ti studiano e studiano il da farsi. Intanto è chiaro che non rappresenti una minaccia: non si tratterrebbero così vicini. Anzi, le distanze si accorciano ancora. Due s’incontrano un attimo, profondi sotto la barca, e subito dopo si dividono in direzione opposta accelerando. Uno dei due viene dritto da te, ti punta come farebbe un aereo da combattimento. Quella che per una nave da battaglia sarebbe una rotta d’attacco. Nel frattempo con la coda dell’occhio scorgi altri esemplari, saranno ormai sei, sette o più? Niente, non fai in tempo a contarli meglio perché quello che ti puntava ti ha quasi raggiunto e ti viene da stare attento solo a quello. Ma all’improvviso vira e ti si piazza di fianco, immediatamente raggiunto dall’altro cui non avevi più fatto caso. Ora ce li hai accanto entrambi, a una distanza che potresti toccarli semplicemente allungando il braccio.

Il loro occhio, così mobile, espressivo e diverso da quello dei pesci, ti scruta in ogni dettaglio. “Dio, quanto siete belli!” è tutto ciò che ti viene in mente. Tutto ciò che esiste, in quell’attimo, al mondo. Inavvertitamente l’hai farfugliato nello snorkel, da quanto volevi dirglielo…chissà se t’hanno sentito? Attimi che sembrano durare un’eternità, tanto il tempo pare dilatarsi, fuggono via e la situazione muta ancora. Adesso di delfini ne puoi contare ben tredici, tutti nella stessa scena. Si tratta di almeno tre nuclei familiari, forse a loro volta componenti di un banco ancor più grande. Due piccoli schizzano sincroni fuori dalla superficie: per la prima volta li vedi da sotto rituffarsi, anziché da sopra emergere. E la maestria che esprimono è identica. Forse gli altri sono tutti là attorno, da qualche parte, semplicemente fuori dalla tua portata visiva. Mentre continui ad avvertire l’intreccio dei loro suoni che, abbinati al linguaggio dei loro movimenti, sanno di precisione e di armonia.

E’ il mare la casa dove vivono, e lì sono sempre loro a condurre il gioco: devi solo lasciarglielo fare, non devono mai vivere l’impressione che qualcosa che tu stai facendo li ostacoli o li minacci. Se sai fare questo, se sai stare nell’acqua senza disturbare neanche quella, loro lo avvertono. O almeno è quanto mi piace pensare che succeda. Di quegli attimi resta comunque qualcosa che ti fa diverso da prima: più ricco, forse. Più tranquillo, senz’altro. Uno strano senso di felicità semplice. Il ricordo di esserti sentito così microscopico in quelle vastità, goffo bipede dalle protesi pinnate, così trasparente agli occhi di quelle creature tanto nobili e capaci. Intanto che torni di continuo con la mente al loro mistero, a chiederti da dove vengano, dove vadano e cosa facciano o che pensino nel loro girovagare verticale tutto blu. O se di notte sognino. E se incarnassero purissimi e liberi spiriti del mare? Di certo vi siete fatti compagnia, scambiandovi emozioni profonde, autentiche come quelle voci sull’abisso. Per attimi incancellabili dal cuore.
(Devo un GRAZIE tutto speciale ai perfetti “complici” che mi hanno permesso di vivere quest’inaspettata avventura e lo faccio limitandomi a chiamarli per nome, cosa che ai delfini immagino piacerebbe: Emanuele, Angelo, Valentina, Chiara e Lorenzo…con me nel bel selfie di gruppo).

Comportamento acustico

Quel poco che si sa sulle stenelle – il tipo di delfino prevalente davanti alla costa del Plemmirio – è che producono fondamentalmente tre tipi di suoni: i click, di frequenza tra i 50 e i 150 kHz, che servono per l’ecolocalizzazione a scopo alimentare, cioè di caccia; i burst, sequenze prolungate di click, che noi umani percepiamo come una specie di miagolii; e i fischi, dalla frequenza più bassa, intorno ai 20 kHz, che servono loro per comunicare tra individui dello stesso nucleo o banco e/o tra un banco e l’altro, in tal caso anche a grande distanza. L’attività acustica delle stenelle pare essere più intensa all’imbrunire e di notte, in armonia con il loro comportamento alimentare prevalente.

Bruno Galli, il profilo

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«Cosa butterei dalla torre, riguardo alla subacquea in generale? Le didattiche improvvisate e coloro che scrivono sui blog senza mai essere andati veramente sott’acqua!…» Parola di Bruno Galli, Presidente FIAS. Andiamo a conoscerlo meglio.

A cura di Giorgio Anzil. Foto repertorio FIAS, Bruno Galli, Mario Pannullo e B&B VILLA del PUOIO.

Per raccontare Bruno Galli subacqueo e presidente di federazione ci saremmo potuti fermare al curriculum: uno come il suo non avrebbe avuto bisogno di altro. Invece vorremmo addentrarci in una sfera un po’ più intima, che tratteggi la persona e il personaggio. Perciò il curriculum lo releghiamo volutamente nell’apposito box e vi portiamo dritti verso il nostro botta e risposta con lui in persona.

Bruno … quale genere di libri e film ti piacciono?
«Gialli, Avventura e Classici»
Ultimo libro letto?
«Più che letto ho ascoltato L’isola Misteriosa e 20.000 leghe sotto il mare, la trilogia di Stieg Larsson Uomini che odiano le donne; La ragazza del treno, Sherlock Holmes e Edgar Wallace ecc..»
Ultimo film visto?
«Non vado al cinema. Ho visto qualcosa in tv ma non ricordo il titolo. L’ultimo che mi è piaciuto e che ricordo è L’attimo Fuggente con Robin Williams.»
Ti piace cucinare?
«No.»
Piatto preferito?
«Pasta in genere.»
Puoi portare con te un solo dolce, quale?
«Pastiera.»
Della subacquea in generale, cosa butteresti dalla torre?
«Le didattiche improvvisate e coloro che scrivono sui blog senza mai essere andati veramente sott’acqua»
Abbiamo imparato a conoscere il Bruno dal primo brevetto, ma come ci sei arrivato?
«Per caso, mi ha iscritto a un corso FIAS – Federazione Italiana Attività Subacquee un mio amico nel lontano 1972. Poi lui ha smesso!»
Quando hai iniziato immaginavi di diventarne il Presidente?
«Mai pensato.»
Cos’è cambiato dagli albori a oggi nel mondo subacqueo?
«Molto: le metodologie didattiche, le attrezzature, una maggiore attenzione alla sicurezza, una maggiore disponibilità all’avvicinamento alla subacquea. Per contro: una minore applicazione, poche immersioni all’anno, meno passione.»
La scoperta più importante, il momento clou della tua vita da subacqueo?
«Difficilissimo rispondere, un po’ perché non saprei scegliere e un po’ perché non ricordo tutto. Il mio piacere di andare sott’acqua è principalmente quello di andarci, di stare sospeso e di muovermi nelle tre dimensioni, tutto ciò che ne scaturisce poi è tutto un di più. Quindi in 45 anni di attività costante, di scoperte e momenti importanti ve ne sono stati tantissimi, ricordo un relitto scoperto in Sardegna con il mio Zodiac e lo scandaglio (che oggi farebbe ridere) alla ricerca di ciò che avevo visto sulle carte nautiche e alla fine trovato e visitato, quasi vergine, oppure un altro relitto tra S. Maria di Castellabate e Agropoli mai visitato da subacquei sempre trovato con gli stessi mezzi.
Momenti importanti sono quelli che hanno visto molti miei allievi crescere, diventare bravi subacquei e addirittura professionisti; oppure aver visto la mia FIAS crescere fino a ottenere i meritati riconoscimenti. Gli interventi di Protezione Civile all’Aquila, sulla Concordia, il primo raduno FIAS a KRK con oltre 300 subacquei… veramente non saprei scegliere.»

Concludiamo svelandovi – col suo permesso – dove trovarlo, casomai voleste proporvi per immergervi con lui. Si può incontrare Bruno durante il periodo estivo a Marina di Camerota nel diving FIAS Continente Blu. In collaborazione con Mauro Giordani e tutto lo staff di istruttori vi può portare a visitare i fondali meravigliosi del luogo, le grotte di Palinuro e farvi vivere esperienze indimenticabili. Come indimenticabili sono i luoghi dove trascorrere il proprio relax post immersioni o dopo una giornata al mare. Noi siamo stati ospiti di un bellissimo B&B a Capolomonte (Scario-San Giovanni a Piro) … e vi posso garantire che scenari come quelli di lì non si vedono tutti i giorni.
(*Dedicando qualche minuto a questo video potrete scoprire ancor di più su Bruno Galli)

Bruno Galli, il curriculum

Nato a Varese il 26.09.49, sposato dal 06.04.1972. Iscritto e brevettato al III corso ARA organizzato dalla sezione FIAS di Varese nel 1972, Brevetto ARA N. 134. Nel 1997 diventa Maestro Istruttore. Eletto Presidente Nazionale FIAS nel 1997 è stato rieletto ogni 4 anni fino al 2020. Direttore responsabile dell’organo ufficiale della federazione “Continente Blu”. Membro per 12 anni del consiglio direttivo e per 6 anni vicepresidente di ASSOSUB. Membro per 8 anni del consiglio direttivo dell’RSTC Europe (Recreational Scuba Trading Council), organizzazione europea che cura la standardizzazione dei corsi subacquei fra tutte le didattiche. Attualmente membro del consiglio direttivo della EUF European Underwater Federation, Federazione subacquea europea a cui fanno capo le più importanti federazioni e agenzie didattiche europee, grazie alla quale FIAS riesce a ottenere le certificazioni EN-ISO. Attualmente membro e vicepresidente del Comitato Italiano Attività Subacquee (CIAS) costituitosi ufficialmente nel 2002 e che rappresenta le principali didattiche italiane, la sua nascita ha portato al riconoscimento dei brevetti FIAS da parte di CMAS. Dal 2008 impegnato con la Consulta delle attività subacquee per l’approvazione della legge 320 sulla subacquea.

Un’escursione da non perdere, anche per famiglie? Eccola

In contrada Lentiscella la vista spazia in lontananza sulle scogliere di Cala Bianca e, più nell’immediato, sulla modesta altura del Monte di Luna. Da qui ha inizio una lunga discesa su una pista ben sistemata che, per serpentine, conduce fin giù al Vallone Viamonte che sbocca nella piccola e incantevole baia ciottolosa di Cala Fortuna. Guadagnando il versante opposto, il sentiero prosegue all’aperto attraversando una zona di cespugli formata da agavi, ginestre, mirto e carrubo. Si penetra in un’ampia radura che scivola verso Cala Bianca, dove il terreno diventa particolarmente argilloso. Risaliti nella parte superiore del promontorio, accanto ad un terreno coltivato, vi è, dopo pochissimi metri sulla destra, la traccia di un sentiero molto largo e visibile che scende attraverso la tipica macchia mediterranea. Pian piano si scopre ai nostri occhi lo spettacolo della bellissima baia di porto degli Infreschi. La cappella di S. Lazzaro segna la fine del sentiero prima di affacciarsi con alcune gradinate scavate nella pietra su di una minuscola spiaggia ciottolosa. Il rientro in barca permette – infine – la visita alle numerose grotte che caratterizzano il tratto costiero.

NEVADA, la “Nave del sale”

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Immersione rapida e indolore nel turchino, su un relitto sorprendente. Nel bel mezzo di un mare dai colori e dalla vita straordinari.

A cura di Romano Barluzzi. Foto Emanuele Vitale. Video Chiara Scrigner.

«Perché il mare è salato?» Appena senti attribuire a un relitto un soprannome del genere, “nave del sale”, rischia di apparirti come una risposta a questa domanda che tutti i bimbi – e forse anche molti adulti – almeno una volta nella vita si sono rivolti. Il fatto è che il Nevada – questo il suo vero nome, quando navigava – fu un cargo mercantile effettivamente carico di sale al momento del naufragio, sale proveniente dalle celebri saline del trapanese. E la cosa non stupisce in realtà più di tanto: l’umanità ha da sempre commerciato con il sale. Ha perfino intrapreso guerre, per il sale. Una sostanza che rappresentò il primo conservante naturale, dalle straordinarie proprietà batteriostatiche e spesso battericide. Anche per questo depositaria di un valore altissimo.

Ma oggi siamo di fronte alla “città dell’Esagono”, la bella Avola, oltre un miglio e mezzo al largo del suo litorale…e non chiedeteci di essere più precisi di così perché, trattandosi di mare, un pizzico di riservatezza è sempre cosa dovuta. Anche per rispetto delle genti del posto e per non incentivare una sconsiderata corsa al relitto (e al reperto!), come spesso purtroppo s’è verificato fino a un passato anche recente. A tal proposito va ricordato che il relitto è inserito in una lista di una quarantina di altri relitti di epoca moderna – di tutte le profondità, sia quelle da immersione ricreativa sia quelle da tech-divers – sotto tutela e monitoraggio da parte della Soprintendenza del Mare della regione Sicilia. Ciò la rende di fatto un’immersione particolarmente “delicata”, al pari di quelle che si possono compiere in area marina protetta, sebbene la zona del relitto si trovi fuori da quella di pertinenza della vicina AMP del Plemmirio.

In seguito alla collimazione del punto nave con vari allineamenti a terra, giungiamo su quella che si suppone la verticale del relitto. Ma la certezza che lo sia ce l’abbiamo solo quando finalmente la superficie cristallina del mare lascia intravedere nitido il cappio di un pedagno fisso che si trova circa 3 metri sotto il pelo dell’acqua. Bisogna tuffarsi in apnea, per ormeggiare la propria cima a quel cappio, con un passante doppio, in modo da poterlo poi liberare direttamente dall’imbarcazione al momento di andarcene. La cima di quel pedagno ci collega al relitto, come il filo dei nostri pensieri ci unisce all’oggetto del nostro desiderio. È la guida della nostra immaginazione. L’ascensore per il Nevada. E ora giù veloci!

In effetti, scendiamo tutti e tre più rapidi di un turbo-ascensore! Modello corallari, per intenderci. Tanto abbiamo alle spalle tutta un’estate d’immersioni, anche di quel tipo, siamo testati e settati a dovere. Quelli che parlano fighi direbbero «in configurazione “deep air”, aria profonda». Noi ci stiamo semplicemente divertendo da matti. Matti consapevoli, s’intende, e sempre più che presenti a noi stessi. Riusciamo perfino a ignorare un meraviglioso banco di barracuda che staziona tutto intorno alla cima, quando ancora il relitto non si vede, in pieno blu oltremare. Degnarli anche di un solo sguardo significherebbe rischiare di cedere alla tentazione di scattargli foto e ruberemmo minuti al già esiguo tempo di fondo programmato. Sfrecciamo fintamente indifferenti, li guarderemo meglio al ritorno. E anche loro si scostano appena, giusto per non farsi urtare, come sapessero che non passiamo di lì per loro. Picchiamo verso la bella poppa del mercantile – che finalmente s’era materializzato d’improvviso alla nostra vista in tutta la sua interezza – e già che ci siamo balziamo anche oltre la sua balaustra, fino all’elica, dove di solito una grande cernia attende i sub. Ma non eravamo il primo gruppo della giornata e la nostra padrona di casa facciamo appena in tempo a intravederla scomparire, indovinandone la sagoma occultarsi calma nel relitto. Siamo a – 52 m.

Nei 10 minuti che seguono facciamo in tempo a sorvolare, sempre in leggera progressiva risalita di quota, l’intero relitto. Da poppa a prua e ritorno. Anche per questo il senso del volo, o meglio del librarsi in giro qua e là senza peso, come astronauti in attività extra-veicolare attorno alla stazione spaziale internazionale, si fa così spiccato e ammaliante. Il silenzio di fondo e i suoni del respiro sono diventati quelli caratteristici del blu più remoto e contribuiscono all’atmosfera. La parte meglio conservata del relitto appare essere la poppa e il terzo posteriore della nave, con tutto lo sviluppo verticale del suo altissimo castello. Una specie di maestoso torrione. Il grande albero maestro, che si protende fino ai – 32 m di profondità, appare parzialmente abbattuto di lato, praticamente diagonale. Da metà scafo in avanti, prua compresa, il relitto è infatti contorto lungo il suo asse longitudinale, come se una gigantesca mano l’avesse arrotolato da prua a mo’ di cartina di caramella. E la diagonale dell’altissimo albero contribuisce anche a distanza a restituire l’immagine di una devastazione forse avvenuta molto tempo dopo l’affondamento risalente a fine gennaio del 1979 (si dice avvenuto per evento naturale, una tempesta; fatto sta che la sera prima la nave c’era e il giorno dopo non c’era più…). Testimonianze del posto descrivono infatti il relitto originariamente rimasto in assetto di navigazione e solo successivamente, pochi anni fa, ritrovato così piegato, in pratica con metà nave anteriore sbandata sul fianco di molti gradi. Un mistero la causa, anche se la consistenza e la quantità delle reti che oggi avvolgono molti punti dello scafo farebbero propendere per l’ipotesi che una terribile “strascicata” ci abbia messo del suo, complice la fatiscenza delle strutture indebolite dal tempo e i danni comunque subiti nell’affondamento.

E dunque il Nevada è così: bello e spettrale. In certi punti le reti sono talmente stratificate che gli incavi creati dalle loro stesse maglie fanno da tana a innumerevoli organismi viventi, incrostazioni biologiche d’ogni tipo, caratteristici – data la quota elevata, l’illuminazione prevalentemente scarsa e le correnti spesso presenti – del miglior coralligeno. Anthias anthias in quantità incalcolabili pervadono ogni decimetro cubo d’acqua intorno alle strutture del relitto e si stagliano contro lo sfondo scuro delle sue aperture, illuminandosi del loro rosa-arancio solo ai faretti delle videocamere. I “guardiani dei relitti”, li chiamano: mai soprannome fu più azzeccato, per degli esserini tanto discreti ed eleganti da preferire di vivere quasi esclusivamente in questi luoghi così perduti. Lo scafo ha diverse vie di penetrazione praticabili ma bisogna imporsi di dedicare loro l’immersione: non è il caso nostro, era previsto che dovessimo solo perlustrarlo “in esterni” ed è quanto facciamo. Insomma, o si entra in casa per sedersi a prendere un caffè o ci si aggira nei dintorni per una visita all’intera tenuta circostante. Si deve saper essere rigorosi.

Sono scoccati 11 minuti dal nostro tuffo in quello scenario misterioso e incantato ed è arrivato già il momento di lasciarlo. Un atto che ci sorprende così stregati da renderci il metterlo in pratica una cosa che finiamo per fare davvero a malincuore. Pur sapendo che avremmo avuto ancora un po’ di margine restando comunque nell’ambito di una decompressione tutto sommato modesta, preferiamo non sfruttarlo e avviarci alla lunga risalita. E poi ci sono i nostri amici barracuda che ci aspettano lassù, a metà strada, e stavolta qualche bello scatto non glielo toglie nessuno. Degli esemplari ci faranno compagnia fin quasi sotto la barca, dove ci concediamo alcuni minuti di respirazione in ossigeno puro, grazie alla stazione di O2 appositamente predisposta intorno ai – 5 m. L’avventura si conclude con un sorriso al pensiero che torna alle sbirciate che comunque abbiamo gettato furtivamente dentro i punti di accesso più bui, preceduti dal fascio della nostra lampada, mentre le domande del nostro “io bambino” prendevano il sopravvento: «dove sarà mai finito tutto il sale? Sarà mica stato quel carico, sciogliendosi nel mare, a mantenerlo finora così… salato?» (Grazie – di tutto e di più – ai colleghi del blu Emanuele Vitale, Roberto Bolelli, Chiara Scrigner)

Un’immersione da esperti

Sebbene a noi sia sembrata “facile” come immersione, al punto da apparire quasi “giocosa”, in realtà di solito non lo è. Siamo piuttosto stati fortunati noi stavolta per aver incontrato condizioni idilliache. Invece quelle prevalenti sul posto – così al largo dalla costa – impongono spesso correnti, moto ondoso e difficoltà di assistenza dalla superficie. Vi incide anche la mancanza di una boa di ormeggio fissa. Per lo stesso motivo, già l’esatta localizzazione – come abbiamo appunto descritto nell’articolo – può trasformarsi in una ricerca assai laboriosa. Poi va annotata la presenza sul relitto e nei suoi paraggi di quasi ogni genere di rete da pesca – talune difficilmente avvistabili – così come di tutti i sistemi di pesca sportiva, lunghe lenze, piombature e grossi ami compresi. Infine, ma non ultimo per importanza, il fattore profondità che, unitamente al trattarsi di un discreto relitto metallico (lunghezza circa 60 m) su fondale pianeggiante, non solo impone un profilo d’immersione quasi quadrato ma espone anche a una visione d’insieme dal forte impatto emotivo che per taluni – specie la prima volta – può rivelarsi fonte di particolare stress. Giova ricordare che i relitti profondi hanno dalla loro un record sinistro in fatto di episodi di “narcosi da azoto”, alias sindrome neuropsichica da alta profondità.

Prima volta con il reb

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«È stata voglia di provare qualcosa di nuovo!…», parola di Fiorella Giulia Bertini quando le chiediamo di descriverci come le sia venuto in mente di affacciarsi al mondo dei rebreathers. Non ci resta che sentire proprio da lei com’è andato l’intero suo esordio.

Di Fiorella Giulia Bertini. Foto Carlo Basso (LiscaDiving Levanto)

«Da tempo ci pensavo. Ormai in quasi tutti i tuffi, o sulla barca o al diving, ne vedevo sempre.
Sto parlando del “rebreather” (letteralmente “ri-respiratore”, a indicare la sua natura di circuito chiuso, insomma “a ricircolo” del gas respiratorio) che per comodità d’ora in avanti chiamerò “Reb”.

Così dopo tanto pensarci ho preso al volo l’occasione che si è presentata sabato 23 settembre a Levanto (GE) presso il Lisca Diving e soprattutto il fatto che a condurre la prova ci sarebbe stata Beatrice Rivoira che, oltre a essere biologa marina e ovviamente eccellente subacquea, è anche istruttrice dei Reb della VMS.

In questa giornata c’era la presentazione dell’apparecchiatura e veniva data l’opportunità di provare in acqua il nuovo Sentinel Redhead illustrato come il CCR più avanzato del mercato; infatti questa nuova macchina ha un sistema di controllo della PO2 all’avanguardia ed è tra le poche ad avere il sensore per il controllo della CO2…e qui mi fermo perché, nonostante abbia letto molto sui Reb, non mi sento in grado di poter dare altre informazioni, a parte quella che tutti i sub più o meno evoluti sanno oppure intuiscono e cioè che il Reb ha cambiato il modo di andare in acqua di chi lo usa in quanto dà tempi d’immersione che il circuito aperto si scorda, impiega una best mix (migliore miscela respiratoria) in qualsiasi momento e quindi tempi di deco ridotti…inoltre la macchina, a differenza di quanto molti pensano, può essere usata anche a pochi metri, ci si può inserire aria normale (come nelle normali bombole) oppure miscela Trimix ecc…

Arrivata al diving di buon’ora mi sono messa a disposizione di Beatrice assieme all’altro diver pure lui interessato alla prova.

Beatrice ci ha fatto un briefing molto efficace che partiva dallo spiegarci in cosa consisteva la macchina, il suo cuore elettronico, i suoi pregi e infine l’accostamento vero e proprio nell’indossarlo e iniziare a respirare.

Incredibile come la sequenza dei controlli prima dell’entrata in acqua sia gestita dal computer che fa apparire sullo schermo passo dopo passo tutto quello che c’è da controllare, se qualcosa non va oppure il sub si ferma la macchina si blocca o riparte daccapo.

Bene, alla fine, quando Beatrice ha giudicato che ne sapevamo a sufficienza, ci siamo vestiti e indossate le stagne siamo andati alla barca che ci ha portato in un’insenatura lì vicino dove avremmo effettuato la prova. Lo stato del mare era perfetto anche se fuori minacciava pioggia…

Arrivati sul posto ho indossato il Reb (ovviamente aiutata da Beatrice) e ho notato che non era assolutamente pesante, insomma non più di un bibombola di media grandezza…mi sono messa 3 Kg di zavorra (di solito ne uso 6 Kg con il monobombola), ho preso contatto, ho respirato per qualche minuto e sono saltata in acqua…e qui altra sorpresa: stavo benissimo e l’assetto era perfetto! Niente male, mi son detta, considerando che è importante averlo buono proprio nei primi 10 m. Tirando i primi respiri come Beatrice mi aveva spiegato non mi sono preoccupata se dovevo tirare un po’ la respirazione ma poi il gas arrivava quasi da solo… La respirazione era tranquilla, il gas non era secco come nelle bombole… io l’ho trovato più umido, quasi più caldo…

Agganciata la bombola di bail-out con Beatrice a fianco sono partita per il mio giro tra le rocce della baia e l’assenza del rumore delle bolle era una fantastica sensazione, mi sembrava che i pesci (anche se lì non ce n’era granché) venissero più vicino… Per regolare l’assetto se volevo avevo il comune comando del gav – che anche il Reb ha – ma l’ho usato solo una volta…

I venti minuti sono passati purtroppo in fretta e ho dovuto ritornare alla barca risalendo alla superficie espirando dal naso come mi era stato raccomandato di fare.

Che dire? È stata una cosa fantastica… La tecnologia ci riserva ogni giorno cose nuove. Io, vecchia subacquea (vado in acqua facendo immersioni dal 1972) con qualche migliaio di immersioni e lontani ricordi del circuito chiuso avendo usato parecchio l’ARO; io che ho iniziato a scendere con il bibombola con l’astina della riserva, il sacchetto di plastica nella manica (i gav non c’erano), il profondimetro senza la lancetta di massima…e quindi vengo da un’epoca se non proprio da pionieri ma, quasi…beh, mi sono sentita come l’astronauta davanti alla navicella che lo porterà sulla Luna. Bellissimo!

L’unico lato negativo di questi apparecchi è il costo attualmente abbastanza elevato…il Reb che ho utilizzato io viaggia sui circa 8.000 € e insomma non sono pochi anche se poi l’ammortizzarlo dipende dall’uso che uno ne fa… Per esempio discese profonde in trimix (cioè una miscela in cui vi è una percentuale di gas elio) fatte in aperto costano una fortuna…con il Reb la parte che viene consumata è solo quella dell’ossigeno e quindi si possono fare diverse immersioni.

Mi fermo qui… semplicemente sono felice che la mia amica Beatrice mi abbia dato questa opportunità e se ce ne sarà un’altra ci sarò anch’io di sicuro!»

(Il nome dell’azienda citata “VMS” che produce il “Sentinel Redhead” provato sta per “Vobster Marine System” di Radstock in Gran Bretagna e per l’Italia e la Svizzera è la “Zero Emission”)

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