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MareNordEst 2018 e la sostenibilità del mare

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Un’operazione di rilancio della ripulitura dei fondali portuali, denominata “Clean water”, è stata la degna conclusione di MareNordEst 2018. Un altro successo per l’ormai celebre manifestazione triestina legata alle attività sopra e sotto il “mare sostenibile”.

La Redazione

Grande successo anche quest’anno per la tre giorni di MareNordEst, la manifestazione incentrata su tutto quanto ruota attorno al mondo del mare svoltasi stavolta l’8, 9 e 10 giugno nella prestigiosa cornice della Centrale Idrodinamica del Porto Vecchio di Trieste con ingresso libero e aperto a tutti, cittadini e turisti.
«Il mare sostenibile» è stato il tema cardine di un evento che anche nel 2018 proponeva tre giorni ricchi di eventi e incontri aperti, tali da coinvolgere le principali figure professionali che ruotano attorno all’ambiente marino in vari ambiti, nell’intento di interessare non solo gli operatori del settore, ma anche i cittadini di ogni età, evidenziando le migliori conoscenze e competenze attualmente presenti sul territorio e tracciando alcune prospettive per il futuro.

Promossa da Trieste Sommersa Diving, associazione senza fini di lucro, in co-organizzazione con il Comune di Trieste e giunta con crescente successo a questa VII edizione, la manifestazione – particolarmente attesa in quanto ormai fortemente integrata nel tessuto economico e culturale cittadino – da sette anni si pone l’obiettivo di rappresentare un preciso punto di riferimento per la promozione della “cultura del mare” e del dialogo sulle prospettive di sviluppo economico, occupazionale, scientifico e turistico connesse, nell’intero Nord Est.

Il programma articolato e completo degli incontri ed eventi vari che avevamo anticipato è stato puntualmente portato a compimento. Anche per questo, più che rientrare nei dettagli delle varie iniziative svolte – com’è noto, si è spaziato da prestigiose proiezioni per i ragazzi delle scuole a vari stage per giornalisti di mare e presentazioni librarie, nonché il concorso fotografico subacqueo internazionale Memorial Moreno Genzo, le premiazioni connesse ecc – desideriamo sottolineare il rilievo della manifestazione conclusiva, proprio quella “Clean water” che ha assunto tanto spessore, sia nella realizzazione e nello svolgimento pratico, sia a livello simbolico, dato il periodo di speciale rilancio mediatico di problematiche ambientali marine come quella delle plastiche e microplastiche disperse in mari e oceani.

Ebbene, colpisce in maniera particolare l’elenco analitico di quanto i moltissimi gruppi di volontari cercatori subacquei hanno recuperato dal fondale accanto al Molo Audace, tutto catalogato grazie all’apporto della ricercatrice dell’OGS – Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale, Federica Nasi e di Manuela Rizzo, laureanda in Geologia all’Università degli Studi di Trieste… sentite qua: «437 bottiglie di vetro; 64 lattine; 23 bottigliette di plastica e 84 oggetti tra sacchetti e altro; 79 bicchieri di vetro; 6 oggetti di ceramica tra cui piatti; 1 sanitario (tazza WC); 1 scaldabagno; 2 biciclette; 1 skateboard; 1 marmitta; 14 ombrelli; 1 tappeto; 1 tesi di laurea in doppia copia; 28 cellulari tra cui un iPhone; 1 orologio; 2 ancore; 1 gonfalone pubblicitario; 1 bandiera italiana; 1 dentiera; 1 mostrina dell’esercito Reggimento Piemonte Cavalleria; 3 batterie di auto; 7 paia di occhiali; 2 volanti; 1 bottiglia di vino; 1 bottiglia di liquore; 4 tra borsette e portafogli; 2 documenti; 22 tra cartelli segnaletica stradale e transenne; 2 coni stradali; 2 copertoni di camion; 1 paio di scarpe; 1 carrello della spesa; vario materiale da pesca; 17 corde; materiale elettrico e ferroso; tessuti vari; 37 cavi elettrici; 2 sedie da esterni… delle quali una poltroncina del Caffè degli specchi il cui titolare, per festeggiare l’insperato ritrovamento, ha offerto un simpatico e scherzoso brindisi ai presenti e incuriositi passanti».

Si può affermare senza timori di smentite che questa grande e spettacolare IV Operazione “Clean Water” 2018 abbia dato nuovo slancio e notorietà anche nazionale alle operazioni di pulizia dei fondali che, come genere, era andato un po’ appannandosi agli occhi dei subacquei negli anni precedenti; mentre stavolta la partecipazione è stata estesissima e assai più sentita, vi hanno preso parte offrendo un insostituibile contributo su base volontaria ben 16 associazioni da tutta la regione e anche dal Veneto: Scuola Cani Salvataggio Fvg, Corpo Pompieri Volontari Trieste – F.F – PGD, Immersione con i caschi, Circolo Sommozzatori Trieste, Sub Sea, Fare Ambiente, Cravatte Rosse, Y-40, Sistiana Diving, Murena, La Triblù, Acquamission, Acquatick Dream, Blue Bubble e Scuba Tortuga per complessivi 202 partecipanti, tutti volontari, tra subacquei, apneisti e personale a terra, 110 dei quali si sono immersi. Alla presenza anche di 2 agenti a bordo di altrettante moto d’acqua della Polizia di Stato, come a voler sancire ulteriormente l’ufficialità dell’iniziativa anche dal punto di vista dell’operatività pratica sul campo.

Ma addirittura l’istituzionalità dell’evento è emersa in tutta la sua evidenza, grazie alla presenza anche del vicepresidente della Camera dei deputati, Ettore Rosato, dell’onorevole Massimiliano Panizzut, del Vicesindaco Paolo Polidori, dell’assessore all’Innovazione del Comune di Trieste, Serena Tonel e dei consiglieri comunali Monica Canciani e Radames Razza. Una partecipazione particolarmente attiva all’operazione e perciò degna di nota speciale è stata quella dell’assessore regionale all’Ambiente Fabio Scoccimarro che, indossando la muta da sub e immergendosi in mare lui stesso per offrire un suo personale contributo pure “da subacqueo”, ha poi parlato anche di «interessante esperienza grazie alla possibilità di lavorare con un team costituito da persone entusiaste e competenti che amano il mare, lo sport e la cura per l’ambiente». «Questa iniziativa – ha affermato concludendo Scoccimarro – rappresenta un messaggio importante per sensibilizzare le persone sul tema dell’educazione ambientale, la quale deve partire soprattutto coinvolgendo i più giovani attraverso le scuole».

Particolare soddisfazione è stata espressa al termine dagli organizzatori di Trieste Sommersa Diving (Roberto Bolelli, Alessandro Damico ed Edoardo Nattelli) che hanno dato appuntamento all’edizione 2019 che presterà – è stato già prontamente anticipato – ancora più attenzione ai temi della salvaguardia e alla cultura del mare e al coinvolgimento del mondo delle scuole, come auspicato pure dagli amministratori regionali e comunali intervenuti.

A conclusione delle operazioni sono seguite nello stesso specchio di mare, apprezzatissime come sempre dal pubblico dei moltissimi astanti della domenica mattina, le spettacolari dimostrazioni di salvataggio in mare con l’ausilio di 11 unità cinofile della Scuola Italiana Cani Salvataggio Fvg.

È stata quindi la volta, sempre presso la Centrale Idrodinamica in Porto Vecchio, delle premiazioni condotte da Adriano Toffoli e Roberto Lugnani, coordinatori della IV Operazione Clean Water, conferite al gruppo più numeroso (Circolo Sommozzatori Trieste con 45 partecipanti alle operazioni), a quello con la maggior presenza femminile (ancora CST con 15 donne presenti) al sub o apneista più anziano (Berardo Degiorgio) e al più giovane (Samuele Maura) e a chi ha raccolto l’oggetto più strano (lo skateboard recuperato da Fabrizio “Zorro” Zarotti) e all’associazione che si è maggiormente distinta (Corpo Pompieri Volontari Trieste – F.F – PGD presenti con 10 unità).

Fondamentale il supporto offerto da AcegasApsAmga, che, per agevolare le operazioni dei sommozzatori, ha provveduto a posizionare un contenitore scarrabile in prossimità del molo Audace per permettere il conferimento dei particolari rifiuti rimossi dal fondale marino portuale. Al termine, gli addetti della Multiutility hanno provveduto a rimuoverlo avviando correttamente a recupero tutti i materiali rinvenuti.

Ulteriori informazioni, immagini e video sono presenti sulla pagina facebook (www.facebook.com/pages/Mare-Nordest-Trieste/694493867279347) e sul sito (www.marenordest.it).
Mare Nordest è realizzato in co-organizzazione con il Comune di Trieste, con il contributo della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e gode del sostegno di AcegasApsAmga, Bignami Sub e Scuba Store.
Mare Nordest ringrazia per il supporto e la vicinanza la Direzione Marittima – Capitaneria di Porto di Trieste, l’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale e Trieste Terminal Passeggeri, Unione Regionale Fvg Corpo Pompieri Volontari P. Gasilci – F. Feuerwehr e tutte le associazioni dedite alla subacquea che ogni anno partecipano con entusiasmo alla manifestazione.


D/S Freienfels nel mare di Gorgona

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«Si tratta di un’immersione tecnica di elevata difficoltà. L’obiettivo era quello di organizzare il gruppo e portarlo a fare questa immersione in sicurezza. Il primo passo è stato quello di contattare chi fu tra i primi a localizzare l’esatta posizione del Freienfels…»

di Marcello Bussotti – Foto Mario Comi – Contributo alla revisione Rossella Paternò.

Erano quattro anni che volevo tornare sul relitto del Freienfels, ma per una serie di motivi non era stato possibile. Per la logistica innanzitutto. Questo relitto si trova in mezzo al Mar Tirreno, molto più vicino all’isola della Gorgona che alla terra ferma. Nessun diving organizzato nella zona, profondità elevata, condizioni del mare spesso non buone con corrente e acqua a strati torbida, tutti questi fattori messi insieme rendono l’immersione in sicurezza su questo relitto veramente difficile. Lo dimostra il fatto che, dopo la mia immersione con il precedente Team nel 2014, l’ultima dopo che il relitto è stato scoperto nel 2013, più nessuno, salvo errori e omissioni, lo ha visitato.
Lo scorso ottobre di ritorno da un’altra splendida avventura, la spedizione sul relitto del HMHS Britannic, la nave ospedale gemella del Titanic affondata in Grecia dopo aver urtato una mina, mi è tornato in mente questo relitto che ha subito la stessa sorte e mi sono quindi messo di nuovo al lavoro.
Si tratta di un’immersione tecnica di elevata difficoltà. L’obiettivo era quello di organizzare il gruppo e portarlo a fare questa immersione in sicurezza. Il primo passo è stato quello di contattare Ciro Osimo, che fu tra i primi a localizzare l’esatta posizione del Freienfels, oltre ad approfondire la ricostruzione storica della vicenda, e che nel 2014 si occupò dell’assistenza al nostro Team. Poi è stata la volta del proprietario della barca, il Chioma Charter. Avuta la loro disponibilità, restava da trovare qualcuno disponibile a seguirmi in questa avventura.
È vero che a tutti piace andare fondi, è vero che a tutti piace postare i profili d’immersioni e che dietro ad una tastiera siamo tutti bravi; ma poi, quando si passa dalla teoria alla pratica e soprattutto, quando c’è da sudare, il gruppo delle persone su cui puoi contare e cui ti puoi affidare si restringe molto. Una volta creato un gruppo di base (che nel corso dei mesi ha subito comunque diverse variazioni per vari motivi) è stato il momento di trovare gli assistenti, sia in acqua sia in barca, e devo ringraziare loro se questa immersione è stata possibile.
La tecnologia in questi casi c’è d’aiuto: una volta creato il gruppo su whatsapp con un colpo solo eravamo tutti connessi e in questi mesi ci siamo confrontati in modo molto costruttivo su tutto quello che riguardava la pianificazione dell’immersione.
Come dicevo, non è la solita immersione da diving dove arrivi e trovi tutto pronto. E questa è un ulteriore grossa difficoltà, ma anche una bella sfida da vincere.
Arriva finalmente la settimana prefissata, si risolvono gli ultimi imprevisti. Il meteo sembra favorevole, e non era così scontato. Fervono gli ultimi preparativi per l’attrezzatura subacquea, per l’assistenza, per la barca e per andare a pedagnare il relitto. Senza un corretto posizionamento della cima di discesa e risalita tutto questo lavoro sarebbe stato inutile.
Appuntamento sabato pomeriggio a Livorno dove ci attende Enrico Tenerini del Bolle d’Azoto Asd che con il suo gommone ci porterà oggi a fare questa operazione e domani invece si occuperà del supporto alla nostra barca in caso di necessità. Siamo io, Giovanni Escuriale, Monica Pignanelli e Ivano Predari. In poco meno di un’ora con un mare come un olio, lontani dalla brezza costiera, siamo sul posto. L’ecoscandaglio segna – 137 metri. Abbiamo i punti GPS precisi da triangolare, con lo strumento che a un certo punto sale improvvisamente a – 118 metri. Siamo esattamente sulla verticale del castello di comando, è il momento di mollare i 60 kg di corpo morto che in un attimo arrivano sul fondo. Posizioniamo due taniche caricate di aria a 10 e 20 m per mettere in tensione la cima e un piccolo segnale in superficie per ritrovare il punto l’indomani. Ci guardiamo: speriamo di avere calato nel punto giusto. E via a terra per una ottima cena a base di pesce con tutto il resto del Team che nel frattempo è arrivato in zona.

La mattina successiva sveglia alle 5.30 direzione porto di Cala dei Medici a Rosignano Solvay. Qui ci aspetta Ubaldo Flamini, fiorentino come me, del Chioma Charter con Luce, un catamarano a motore di 14 metri che ci porterà sul sito d’immersione. Carichiamo le attrezzature secondo l’ordine d’ingresso in acqua, si parte!
Durante le due ore di navigazione si fanno gli ultimi controlli, si ripassano i ruoli e le procedure. Un minimo di tensione è palpabile, ma prevalgono il buon umore e la goliardia. Briefing finale.
Ci siamo: avvistiamo il segnale in superficie lasciati il giorno prima. Ubaldo ormeggia Luce nei pressi del segnale e Gianni Cecchi scende in acqua a fissare al pedagno le boe di superficie per la discesa. Intanto si prepara la prima squadra: Marcello Bussotti, Mario Comi, Ivano Predari, Andrea Pizzato.
Seguono: Simone Furlanetto con Alessandro Bertasi, Alessandro Georuga e infine Giovanni Escuriale con Monica Pignanelli.
Tutti i componenti del Team utilizzano per l’immersione il Rebreather a circuito chiuso elettronico Megalodon Innerspace. Il rebreather infatti permette di raggiungere queste profondità e di potervi trascorre un tempo di fondo adeguato, tale da consentirne l’esplorazione, e di gestire in modo indipendente la risalita e tutte le fasi della decompressione.
Le squadre sono distanziate da un intervallo di venti minuti per evitare il sovraffollamento in immersione e soprattutto durante le lunghe tappe di decompressione.
Inizia la discesa, dopo circa quattro minuti ecco sotto di noi il castello del ponte di comando della Freienfels, ancora in perfetto assetto di navigazione! La nave ci appare immensa con i suoi 160 m di lunghezza! Siamo a –120 m. Il corpo morto è atterrato direttamente nella stiva di prua, sotto il castello, e la cima è posizionata in modo ottimale. Sistemiamo le luci stroboscopiche per facilitare la localizzazione della linea di risalita. Un’occhiata di controllo e inizia l’esplorazione. C’è una strana luce per essere a questa profondità e il blu è veramente intenso. Lo scooter rende tutto più facile, veloce e sicuro. Un giro completo del castello seguendo il corrimano. Guardando attraverso i finestroni s’intravedono una vasca da bagno e numerose stoviglie, e poi giù fino alle enormi stive di prua. Siamo a -133 m. Le stive sono aperte e vuote, con il tempo la copertura si è dissolta. Più avanti gli enormi bighi di carico per issare a bordo il materiale ferroviario pesante. Il relitto appare integro, completamente colonizzato da ostriche e il castello è coperto parzialmente da reti che rendono la vista spettrale.
Alcuni punti del corrimano sono ancora intatti. Rispetto alla volta scorsa la visibilità è migliore e le miriadi di anthias che lo avvolgono si spostano quando vengono sfiorati dal fascio delle nostre luci. Il tempo qui si è fermato al 19 dicembre 1940 quando il mercantile tedesco è finito su un campo minato non segnalato degli alleati italiani ed è affondato insieme alla sua gemella Geierfels, che si trova a circa un miglio di distanza. I due relitti sono stati identificati con esattezza nel 2013 da Massimo Domenico Bondone. Il tempo passa veloce. Siamo già al venticinquesimo minuto. In una sola immersione non è possibile esplorare tutti i 160 metri di lunghezza della nave. Mario ha già scattato diverse foto. La cima di risalita è di fronte a noi, ci scambiamo un’occhiata d’intesa e vediamo piano piano sparire la sagoma del relitto dietro di noi. Siamo contenti, l’adrenalina è alle stelle e ora inizia la lunga e lenta risalita. Incontriamo la seconda squadra in discesa. Confermiamo l’ok e via verso la superficie. Le tappe si fanno sempre più lunghe man mano che la profondità diminuisce e c’è tutto il tempo di pensare a quello che abbiamo visto, quello che abbiamo fatto e quello che resta da fare. Intanto ci vengono a trovare Roberto Fattori, Riccardo Mandolini e Gianni Cecchi che si occupano della sicurezza e hanno allestito la stazione decompressiva in modo ottimale, con appese tutte le bombole di emergenza. Gli diamo l’ok, ci alleggeriscono il carico delle bombole di bailout, ognuno di noi ne aveva da tre a quattro, e arriviamo infine a -6 m. Qui dopo un po’ ci raggiungono anche gli altri e alla fine, dopo 210 minuti circa di runtime, mettiamo di nuovo la testa fuori dall’acqua, sperando che la decompressione abbia fatto il suo dovere.
Siamo tutti di nuovo in barca la tensione ora lascia spazio all’euforia. Abbiamo fatto un gran bel tuffo e ne siamo consapevoli. Ubaldo mette in moto Luce e l’isola della Gorgona si allontana sempre di più fino a sparire, è quasi il tramonto. Siamo stanchi ma soddisfatti e dopo la consueta foto di rito carichiamo le attrezzature in macchina e ci diamo appuntamento per la prossima avventura!
Un grazie di cuore a tutti quelli che hanno reso unica questa giornata!
La Freienfels, la Geierfels, la Uhenfels e la Lichtenfels erano quattro navi mercantili gemelle costruite tra il 1929 e il 1931 dalla Deutschen Schiff- und Maschinenbau A.-G. Werk A.G. “Weser” per conto della Deutsche Dampfschiffahrts-Gesellschaft Hansa (DDG Hansa), un’importante compagnia di navigazione tedesca specializzata nel trasporto di merci pesanti e traffico programmato tra l’Europa e l’Estremo Oriente. Fondata a Brema in Germania nel 1881, la società dichiarò bancarotta nel 1980. Furono le prime navi da carico ad essere dotate di un picco di carico da 120 t per il caricamento autonomo di materiale ferroviario pesante.
Fino alla dichiarazione di guerra le navi erano adibite al trasporto di merci e passeggeri sulle rotte orientali. Allo scoppio della seconda guerra mondiale i due mercantili si trovavano in Mediterraneo e ricevettero l’ordine di rifugiarsi nel porto amico più vicino. La Geierfels si diresse verso Napoli e la Freienfels a Trieste e furono entrambe confiscate dalla Kriegsmarine nell’ottobre del 1940, la quale ordinò alla Freienfels di dirigersi verso Napoli e ricongiungersi alla nave gemella. L’idea era quella di utilizzare le due navi per una missione preparativa dell’Operazione Felix, il nome in codice di un’azione militare tedesca che aveva come obiettivo la presa di Gibilterra, pianificata da Hitler nel 1940. L’Operazione prevedeva l’occupazione da parte dei tedeschi di Gibilterra con l’aiuto della Spagna del Generale Franco che si sarebbe dovuto alleare con il Terzo Reich.
Gibilterra è sempre stata considerata una zona strategica e la sua occupazione avrebbe impedito l’accesso all’Inghilterra al Mediterraneo e quindi alla colonia di Malta e al Canale di Suez. Franco temeva che un suo rifiuto a collaborare con il Terzo Reich avrebbe scatenato le ire di Hitler e forse un attacco nazista alla Spagna. Per questo motivo si mostrò inizialmente accondiscendente nel trovare un accordo di collaborazione con Berlino. Il 23 ottobre Hitler incontrò il Dittare in Francia e gli chiese di entrare in guerra entro il gennaio 1941. Franco, che di fatto non voleva un coinvolgimento della Spagna nel conflitto, rifiutò. Nonostante le sue resistenze Hitler aveva già approvato un piano per l’invasione di Gibilterra e ordinò di proseguire l’elaborazione dell’Operazione Felix.
Alle due navi venne dato l’ordine di raggiungere la Francia per il carico di truppe e mezzi da sbarco. I mercantili, che viaggiavano a distanza ravvicinata, nella notte del 19 dicembre 1940 incapparono in un campo minato antisommergibile italiano non segnalato tra l’isola della Gorgona e Livorno e affondarono ad un’ora di distanza l’una dall’altra. Una con la prua diretta a nord, l’altra a sud. Resta da capire come le mine posizionate in profondità siano risalite tanto in superficie da essere urtate dalle navi. Le Freienfels e la Geierfels, le prime navi tedesche affondate in Mediterraneo durante il Grande Conflitto, colarono a picco nella zona di mare antistante l’isola della Gorgona e nessuno e riuscito a sapere attraverso le ricerche storiche se ci furono vittime tra i due equipaggi. Le gruette delle scialuppe in posizione di lancio e le scialuppe di salvataggio stesse assenti dovrebbero essere la conferma che l’equipaggio avrebbe fatto in tempo ad abbandonare la nave.
L’identificazione è stata fatta da Massimo Domenico Bondone attraverso il ritrovamento della campana della Geierfels e la targa del Cantiere affissa nella parte anteriore della plancia della Freienfels.

Tipo: Nave da carico
Lunghezza (fuori tutto): 160,45m
Larghezza (fuori tutto): 18,94m
Altezza: 20m
Stazza lorda: 7,454 t
Stazza netta: 4.516 t
Stazza a pieno Carico: 10.500 t
Propulsione: Motore a vapore a tripla espansione della Deschimag Werk A.G. “Weser”, Brema – Turbina Bauer-Wach 5.100  PSI / 74 UpM, un’elica, un timone
Velocità: 13,7 nodi
Equipaggio: 35 europei, 39 indiani
Passeggeri paganti: 12
Cantiere: Deutschen Schiff- und Maschinenbau A.-G. Werk A.G. “Weser” di Brema
Numero di costruzione: Bau-Nr. 879
Armatore: Deutsche Dampfschifffahrts-Gesellschaft “Hansa”, Brema
Varo: 15/07/1929
Attrezzatura per le operazioni di carico e scarico: 1 picco di carico da 120 t – 1 Picco di carico da 30 t – 1 Picco di carico da 15 t – 18 picchi di carico 5 t

Il 22.10.1940 entra a servizio della Kriegsmarinedienststelle (KMD)
Viene affondata il 19.12.1940 insieme alla gemella Geierfels.

Fonte: Deutsche Dampfschifffahrts-Gesellschaft “HANSA”, Brema

Leonardo sommozzatore?

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Leonardo Da Vinci aveva inventato anche un sistema di respirazione subacquea. Ma avrebbe mai potuto funzionare? Immaginate di essere tornati a cinque secoli fa e noi vi aiutiamo a dirci se l’avreste indossato per immergervi. Perciò leggete qui. E poi a voi la parola.

A cura di Romano Barluzzi. Immagini: repertori e crediti in fondo all’articolo e in didascalie.

È chiaro che il quesito riguarda non tanto gli espertoni né i vari guru della subacquea, quanto i novizi. Coloro che, proprio in questi giorni di inizio estate, si cimentano per la prima volta con l’applicazione pratica di quegli elementari principi di fisica che hanno appreso durante il corso base. Questo articolo è innanzitutto per loro (anche se ci auguriamo piaccia pure ai “professional”). Ma prima di formulare il quesito pubblico in oggetto, c’è bisogno d’una premessa.

Forse non tutti sanno che il grande genio del rinascimento, Leonardo Da Vinci, nella sua eclettica e variegata carriera di studioso e inventore, elaborò anche una versione di “marchingegno” per immergersi e respirare sott’acqua. Però in passato si è a lungo discusso sull’impiego reale di questo strumento, con forti dubbi sulle concrete possibilità che avrebbe potuto avere di assicurare sopravvivenza prolungata a chi ci si fosse all’epoca immerso.

Dopotutto, anche in generale di Leonardo si era creato un tempo il pregiudizio che fosse stato più visionario che ingegnere, cioè che le sue invenzioni avessero espresso un grande intuito ma con possibilità applicative pratiche spesso e volentieri molto scarse. Insomma, che si fosse trattato più d’un fantasioso teorico che di un vero progettista pratico.

Poi a qualcuno è venuta l’idea di provare a realizzare le macchine che aveva ideato sulla base dei disegni che lasciò, e addirittura con gli stessi materiali, per vedere se e come funzionassero. E le sorprese non mancarono, dimostrando quanto i dubbi sulla concretezza della sua opera d’ingegno fossero infondati: le sue macchine funzionavano quasi tutte!

Svariati anni or sono una serie di documentari inglesi portò in televisione anche tutta la spettacolarità di queste ricostruzioni e del processo d’indagine sui progetti, sui materiali, sulle tecniche e sui montaggi dell’epoca con i quali gli storici avevano fatto luce sul lavoro dello scienziato. E da allora è stato tutto un fiorire di musealizzazioni dinamiche e sedi espositive (nel nostro Paese le due principali sono a Venezia e a Firenze, ma ce ne sono perfino di itineranti, senza contare il Museo Nazionale della scienza e della tecnologia di Milano che di Leonardo Da Vinci porta nome e cognome) che hanno messo in mostra le mirabili riproduzioni leonardesche e quel che doveva essere stato il loro funzionamento.

Del resto, a pensarci meglio, non avrebbe dovuto destare troppa meraviglia che Leonardo ci avesse così tante volte azzeccato: viveva di questo, era un “professionista”, inventava – anche – per guadagno. La maggior parte della sua opera era stata quindi strettamente legata alle esigenze di reale funzionamento, a cominciare dalle macchine militari – per le quali è fin troppo ovvio che dovesse garantire efficacia, efficienza e precisione – fino all’idraulica, con sistemi di regimazione delle acque, macchine mosse dall’energia cinetica dell’acqua ecc, che ebbero moltissimi usi applicativi civili.

Ma la sorpresa viene nel constatare quanto volle occuparsi perfino del volo aereo, come della navigazione e… dell’immersione. Campi in cui è più difficile immaginare quanto egli stesso credesse fino in fondo nella reale funzionalità delle proprie invenzioni. Eppure… pensate che riguardo al volo, e malgrado un vero e proprio “elicottero a elica-vite” (celeberrimo anche questo suo disegno) non riuscisse a staccarsi da terra, restando così una pura sebbene sorprendente anticipazione dei moderni mezzi ad ala rotante, è certo che alcuni successi con mezzi “plananti” li ebbe, eccome. Ne fece le spese un suo assistente, Tommaso Masini, detto Zoroastro da Peretola, divenuto prova vivente dei successi ottenuti, dato che sopravvisse ad alcuni lanci sperimentali (oggi l’avremmo definito “pilota collaudatore”) con dei sistemi di volo planato analoghi al deltaplano o all’aliante: cosa che fruttò al progresso anche le testimonianze sulle tecniche ortopediche applicategli dallo stesso Leonardo – grande anatomista – per curarne le fratture ossee riportate!

E per l’immersione? Eccoci al punto. Il sistema progettato da Leonardo sembrava aver previsto tutto ciò che conta per ottenere lo scopo prefissato. A cominciare proprio dalla respirazione, che il genio aveva intuito non potesse svolgersi in un solo condotto, soggetto a non spurgare a sufficienza l’aria viziata emessa con la fase espiratoria. Un solo tubo insomma non avrebbe potuto scongiurare il ristagno dei gas respiratori. E infatti troviamo nel marchingegno di Leonardo due tubi, di cui uno di aspirazione dell’aria e l’altro di espulsione. Aveva ottenuto lo scopo dotandoli di duplice valvola, ciascuna ad apertura unidirezionale: con ogni atto respiratorio, l’inspirazione ne apriva una sola tenendo chiusa l’altra; al momento di espirare, si chiudeva viceversa la prima e l’aria da espellere apriva solo la seconda, per uscire imboccando così il tubo “di scarico”. In parole povere, l’aria non poteva tornare indietro: una volta aspirata da un lato, se ne poteva uscire solo dall’altro. Entrambe i tubi avevano le rispettive bocche costantemente fuori dall’acqua, saldamente fissate a un capace galleggiante circolare – tipo ciambella sovrastata da una cupoletta – concepito evidentemente per seguire ogni spostamento del subacqueo. Grande cura aveva riposto Leonardo nella composizione delle pareti delle tubazioni e soprattutto nei rispettivi punti di giunzione, tutte zone irrobustite addirittura con inserti a base di molle elicoidali di metallo temperato, onde garantire che – per quanto sufficientemente flessibili – in nessun frangente avessero a schiacciarsi e la pervietà all’aria fosse mantenuta sempre.

Ma le sorprese non sono finite qui, anzi, forse la più rilevante consiste nel constatare che l’inventore aveva pensato in maniera davvero globale: l’equipaggiamento prevedeva infatti, oltre all’apparato di respirazione, un vero e proprio “scafandro”, un assemblaggio di cappuccio, giubbone e pantalone integrale alto, tale che nell’insieme il subacqueo doveva risultarne “impermeabilizzato”. Questa specie di “stagna” era a sua volta dotata di un contenitore – una sorta di otre solidale con la “muta”, corrispondente a quel rigonfiamento visibile in foto – per regimare l’assetto, immettendo aria per alleggerirsi rispetto al fondo o salire addirittura; e sgonfiandolo viceversa per scendere o mantenersi più stabile a contatto col fondale. Forse l’inventore ne aveva supposto anche un ruolo di riserva d’aria respirabile indipendente dalla superficie, oppure questa funzione era deputata ad altro analogo “serbatoio” attiguo, pur nell’inconsapevolezza della scarsissima autonomia che avrebbe avuto. L’armamentario prevedeva poi – in particolare per la testa – l’abbozzo di quel che sarà in seguito un vero e proprio elmo da palombaro, una specie di rivestimento copricapo integrale dotato di ampi vetri bioculari per la necessaria visione, come fosse una specie di maschera integrata; dei sacchetti appesi in vita e sganciabili, contenenti pesi (sabbia) a mo’ di zavorra; nonché delle appendici per i piedi e alle mani antesignane rispettivamente di pinne e guanti; e perfino dei raccoglitori interni per i fluidi biologici del sub. Non poteva naturalmente mancare al corredo un coltello da sub per qualsiasi evenienza, specie nell’eventualità di doversi liberare da intralci o impigli. Tutti elementi che testimoniano come Leonardo evidentemente supponesse per l’apparato la potenzialità di conferire una certa cospicua autonomia dalla superficie e in ogni caso un prolungamento della permanenza in immersione. Caratteristiche che dovette ritenere in qualche modo prioritarie per l’impiego militare, come testimoniato dall’abbinata progettuale con strumenti atti a provocare ingenti danni alle chiglie e agli ormeggi delle navi nemiche.

A proposito di impiego c’è altro che induce a considerare quanto Leonardo avesse avuto a cuore la concretezza del progetto e confidasse nell’efficacia del suo funzionamento in termini di effetti militari, pur commisurandoli ai pericoli dell’impresa: un’attenta e precisa valutazione del rapporto tra rischi e benefici. Talmente lucida da averlo indotto a corredare la sua opera di raccomandazioni per l’aspirante incursore sub perfino professionistiche, come quella di «fare prigionieri» per assicurarsene il riscatto nella misura di «metà della taglia» e soprattutto la stipula preliminare di un vero e proprio contratto d’ingaggio! Per dirla con le sue parole: «…ma prima fa’ patto per istrumento, come la metà de la taglia sia tua, libera senza alcuna accezione». Come dire: è studiato perché funzioni ma i rischi sono comunque talmente alti che è meglio garantirsi un lauto guadagno prima d’affrontare l’impresa. Perciò neppure questa documentazione testuale, di per sé, può essere considerata prova certa di avvenuto funzionamento del “respiratore subacqueo” leonardesco.

Dunque eccoci finalmente al quesito ancora aperto che vogliamo rilanciare alla vostra attenzione: l’apparecchiatura ideata da Leonardo per immergersi poteva funzionare davvero oppure no? In caso di si, che tipo d’immersione avrebbe saputo assicurare ai volenterosi collaudatori e agli ardimentosi “incursori” del tempo? E la squadra navale avversaria avrebbe avuto di che doversi preoccupare?

E ora forza: provateci! Scriveteci la vostra risposta, con le osservazioni e le motivazioni che volete. Ma senza prima correre a mettere tutto su Google, s’intende! Da parte nostra, risponderemo ovunque possibile, con ciò che sappiamo. Affinché sia l’immaginazione sia la ragione abbiano a sentirsene soddisfatte. Dopotutto, proprio lui – Leonardo – era stato il primo a sentenziare: «Se ti avviene di trattar con l’acqua, pria l’esperienza poi la ragion delle cose»!

(Le immagini dei disegni del servizio sono tratte: dal Cod. Arundel, c. 24 v; dal Cod. Atlantico, c. 647 v, ex 237 v, in tema rispettivamente di “Sistema di respirazione per palombaro con particolari sui giunti di raccordo” e di “Studio per il respiratore ed il funzionamento delle due valvole”; le foto dal Museo Nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo Da Vinci di Milano).

Alla scoperta delle Tegnue

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Partendo dal ripristino delle boe d’ormeggio e dalla rinnovata possibilità d’immergersi in questi habitat, vediamo cosa siano. Tra le suggestioni di ciò che sopravvive sul mistero delle loro origini. E come, dove e con chi sia possibile fare un indimenticabile tuffo in questi templi della biodiversità in alto Adriatico. La parola all’esperto insieme a un suo video.

A cura di Chiara Scrigner e la Redazione. Immagini di Piero Mescalchin

«Con piacere comunichiamo a tutti che sono state ripristinate le boe nell’area di Tutela Biologica delle Tegnue di Chioggia, ora fruibile da quanti volessero immergersi. L’operazione è stata conclusa nella giornata di sabato 30 giugno e la situazione verrà costantemente aggiornata nella pagina del nostro sito http://www.tegnue.it/. Fondamentale comunque è stata l’opera di un gruppo di volontari che si sono immersi. Tutto è stato fatto in estrema economia con i fondi dalla nostra Associazione raccolti dalle quote associative, da donazioni in cambio di libri e dal 5×1000. Ora la parte più importante è il ripristino dei percorsi di sicurezza da parte dei Club e siamo disponibili a fornire cordini e segnali percorso. Fisseremo a breve la data di un incontro per meglio organizzarci e tutti insieme guardare avanti, con l’aiuto della gente di Chioggia che ama e vuole bene al suo mare. Avremo purtroppo bisogno anche di un cantiere specializzato nel caso di perdita completa dell’ormeggio (boa di Padova e Monselice). Cercheremo degli sponsor che ci aiutino economicamente; non servono molti soldi, ma pochini sì! Aspettiamo a questo indirizzo info@tegnue.it proposte e adesioni. Volendo potete compilare il modulo alla pagina: http://www.tegnue.it/adesione.asp Rivolgiamo un grazie di cuore a quanti ci hanno sostenuto e continuano a farlo.» Con queste parole testuali l’Associazione che fa capo alle Tegnue di Chioggia dà l’annuncio pochi giorni or sono del riavvio delle attività legate alle immersioni. Volendo saperne di più di questi habitat biologicamente unici, siamo andati a rivolgere un po’ di domande a qualcuno che le conosce molto bene e che si è speso tantissimo nel corso degli anni sia per la loro tutela sia per farle meglio conoscere agli amanti delle immersioni: Piero Mescalchin, già responsabile della suddetta associazione e dell’Area omonima.

Cosa sono le Tegnue?
«Fin dal XVIII secolo era già ben nota la presenza di rocce sommerse al largo delle coste nord Adriatiche italiane, come testimoniano gli scritti dell’abate Giuseppe Olivi. I pescatori locali le hanno sempre chiamate “Tegnue” per la loro capacità di trattenere e rompere le reti. Anche se temute per i danni che possono arrecare, le Tegnue sono sempre state apprezzate per la loro elevata pescosità.
Di Tegnue ve ne sono un po’ in tutto l’Adriatico settentrionale, a profondità variabili dai 15 ai 40 metri. Hanno dimensioni che vanno dai piccoli massi isolati fino a formazioni estese per centinaia di metri. Le formazioni più estese e meglio conosciute sono quelle al largo di Chioggia.
Le Tegnue sono rocce organogene carbonatiche, cioè costruite dagli organismi marini, generalmente sovrimposte a substrati duri precedenti formatisi per il consolidamento di sabbie. Si tratta in pratica di veri e propri “reef” naturali, sviluppatesi negli ultimi 3-4.000 anni, e che differiscono da quelli tropicali perché i principali organismi costruttori qui non sono i coralli ma bensì le alghe rosse calcaree, chiamate “Corallinacee”.»

Come le descriverebbe in meno di tre righe?
«È un mondo subacqueo che non ha eguali. Si può fare un’immersione in soli pochi metri quadrati di fondo tale e tanta è la quantità di vita e sempre in continuo cambiamento! Ci si dovrebbe vantare: “Sono stato sulle Tegnue!”, ora dichiarato anche “SIC – Sito di Interesse Comunitario”»

Quali sono le loro maggiori peculiarità? Da qualsiasi punto di vista: geologico, biologico, ambientale ecc.
«I subacquei che s’immergono qui possono apprezzare la grande varietà di forme di vita che popolano questi fondali, unici nel Mediterraneo. Particolarmente appariscenti, per forme e colori, sono le spugne, le ascidie coloniali e gli anemoni. Le rocce brulicano di ofiure e crostacei, dai piccoli paguri, fino ai maestosi astici. Tra i pesci è possibile osservare una moltitudine di bavose, castagnole, sacchetti e scorfani, non mancano i grandi gronghi e le corvine. Spesso è possibile osservare banchi di merluzzetti che volteggiano intorno alle rocce.»

Quante ce ne sono di censite e mappate nell’Alto Adriatico?
«Ce ne sono tantissime di Tegnue, sparse in tutto l’Alto Adriatico. Qualche anno fa l’ARPA Veneto ha cercato di censirle chiedendo coordinate a pescatori, Diving e frequentatori del mare ma non credo abbiano ottenuto dati molto precisi né completi. Una volta per localizzare la posizione si usava il Loran-C, molto impreciso, e anche l’odierno GPS può fornire dati poco attendibili. Negli anni ho raccolte e catalogate le coordinate di più di tremila Tegnue (o ritenute tali), avute dai libri di bordo dei pescherecci di quando, anni addietro, andavo a recuperare loro delle reti incagliate. È certo che le più estese sono proprio davanti a Chioggia, una vere catena montuosa sommersa di 2 miglia di larghezza per 4 di lunghezza!…»

Qual è secondo lei la principale caratteristica che le rende così appetibili ai sub? Biodiversità, microfauna, altro?
«Uno degli aspetti più straordinari delle Tegnue è la capacità di molte specie di mimetizzarsi e solo l’occhio attento e preparato riesce a scorgerle. In diverse occasioni, dopo una immersione, nel rivedere un filmato ho scorto degli organismi che non avevo notato prima.
È curioso come molte volte un pubblico poco preparato abbia difficoltà a riconoscere nel contesto di una fotografia il soggetto principale, altre volte per l’eccessivo affollamento si è costretti a catalogare la foto come “foto di ambiente”. Sono aspetti questi che rendono unica la flora bentonica delle Tegnue. Si può passare un’intera immersione in pochi metri quadrati di fondale, tale è la quantità di cose da vedere.
In campo fotografico è da preferire la macro sia per il tipo di flora e fauna, principalmente di piccole dimensioni, sia per non anteporre tra l’obiettivo e il soggetto troppa acqua nella quale molto spesso è presente della sospensione o del plancton.
Dalle campagne di ricerca compiute negli anni passati nelle quali sono state fatte innumerevoli immersioni in zone diverse nelle Tegnue di Chioggia è emersa una certa varietà di ambienti anche relativamente vicini. Particolarità singolare è una fioritura Parazoanthus axinellae estesa per qualche decina di metri e presente solo in rarissimi altri siti ma in quantità limitate. Altra particolarità l’ascidia Aplidium tabarquensis presente in una zona più esterna delle Tegnue. La Masellla edelwais si trova solo in una zona centrale delle Tegnue.»

È stato definito “il Signore delle Tegnue”: qual è quella che ha avuto (o attualmente ha) più a cuore? E perché?
«Questo titolo mi fa sorridere ma è anche vero che la maggior parte della mia vita subacquea l’ho trascorsa in questo mare e se Chioggia ha una Zona di Tutela Biologica lo deve quasi esclusivamente a me e alle mie ricerche.
Quando si prospettò l’esigenza di presentare la richiesta dell’Area a Tutela Biologica delle Tegnùe, non è stata cosa da poco decidere quali dovevano essere i limiti geografici della zona. Avevo fatto centinaia e centinaia di immersioni per molto tempo solo basandomi su dei riferimenti a terra, anche se poi con una bussola di rilevamento ero riuscito egualmente a riportare i dati su una carta nautica. Solo negli anni attraverso la strumentazione Loran (Long Range Navigation) e poi con il GPS (global position satellite) ho avuto dei riferimenti certi. Confrontando punto per punto delimitai l’area; diverso il problema di segnalare le tre piccole zone esterne. A rendere pubbliche le coordinate geografiche si correva il rischio, se non adeguatamente protette, di farle depredare più in fretta dai pescatori e rovinare la fauna del fondo con un ancoraggio selvaggio. Di fondamentale importanza è stata l’ordinanza emessa dalla Capitaneria di Porto di Chioggia (32/06) e di Venezia (102/06) che vieta nell’area l’ancoraggio e l’immersione tranne dalle boe di attracco predisposte.
Grande è stata la soddisfazione quando nel 2003 l’ICRAM (Istituto Centrale Ricerca Applicata al Mare) ha eseguito con il Side Scan Sonar la mappatura tridimensionale della zona, confermando che l’area che avevo proposto copriva esattamente tutte le Tegnùe di Chioggia. È stata per me una emozione vedere la conformazione rocciosa nel suo assieme; quegli avvallamenti che incontravo tra gli affioramenti, secondo teorie recenti, possono essere l’alveo di un fiume e tutta la zona un’antica area deltizia.»

I maggiori “punti deboli” di queste aree? Ovvero fattori di criticità che richiedano un particolare impegno nella loro salvaguardia…
«Sono lontane, la parte più vicina è a 2,5 miglia dalla costa e la più lontana a 6. Sono tra l’altro molto estese, circa 25 kmq e quindi anche il controllo della Capitaneria di Porto è molto difficoltoso. Il problema maggiore è l’abitudine dei pescatori di rilasciare in questa zona reti smesse e quanto altro nel peschereccio non serva. Questa abitudine ha radici decennali ed è difficile da cambiare, non facilitati dalla mancanza di depositi adeguati a terra e da costi imposti per lo smaltimento. Ora a peggiorare la situazione ci sono gli scarti dei retini usati per la coltivazione dei mitili. Ce ne sono dappertutto e si incagliano sulle asperità del fondo. La pesca comunque si è ridotta nella zona, dato il divieto anche se rimangono gli irriducibili con piccoli pescherecci.»

Perché un subacqueo che non le conosce dovrebbe volersi immergere proprio nelle Tegnue?
«Non è sicuramente un mare facile per il subacqueo come può esserlo un mare tropicale. Ci sono difficoltà legate alla poca limpidezza anche se ci regala giornate con ottima visibilità. Da non trascurare la temperatura dell’acqua che in profondità non supera i 20° mentre in inverno può scendere anche sotto i 10°. La straordinaria valenza delle Tegnue è la biodiversità, la grande ricchezza di organismi che le popolano come Ascidie, Cnidari, Poriferi, Crostacei; non mancano i pesci come Gronghi, Corvine, Sciarrani, Gattopardi. Altro fattore positivo è la poca profondità che varia dai 18 ai 25 metri che, soprattutto con l’utilizzo di miscele arricchite di ossigeno, permettono una lunga e sicura permanenza sul fondo.
La nostra Associazione “Tegnue di Chioggia” – onlus ha comunque un sito: http://www.tegnue.it nel quale si possono trovare informazioni sui punti di immersione. Sul mio canale Youtube potete trovare innumerevoli video prodotti negli anni: https://www.youtube.com/user/PieroMescalchin/videos come nella nostra pagina Facebook moltissime fotografie dei fondali delle Tegnue: https://www.facebook.com/groups/tegnue o nella mia: https://www.facebook.com/piero.mescalchin.
Sono state prodotte diverse pubblicazioni informative e video disponibili gratuitamente o attraverso una donazione a sostegno dell’Associazione.»

Qualcosa – il classico “sogno nel cassetto” – che non ha mai dichiarato a nessuno in tema? In esclusiva per noi di Serial Diver?
«Un sogno ce l’ho nel cassetto: portare le Tegnue di Chioggia a diventare “Patrimonio dell’Umanità”!
Maggio del 2010, un importante appuntamento ci aspettava; siamo stati invitati a Palazzo Zorzi – Venezia, nella prestigiosa sede dell’UNESCO per proporre le Tegnùe di Chioggia come “Patrimonio dell’Umanità”. La nostra conferenza era stata preceduta dalla consegna di una corposa documentazione come richiesto dal protocollo e inoltrata ufficialmente oltre che a Venezia, alla sede di Roma. Purtroppo nessun chioggiotto era presente al Convegno nonostante l’invito fosse stato mandato a istituzioni e cittadini. Sono comunque certo che è una questione di tempo e di maturazione. Noi continueremo a lavorare: era un sogno anche sperare in un’area protetta davanti a Chioggia, eppure oggi è una realtà!»

Appoggiandosi ai diving locali, si possono effettuare immersioni in tutte le Tegnue in tutti i periodi dell’anno?
«Posso rispondere per la mia zona: la ZTB delle “Tegnue di Chioggia”. La stagione inizia principalmente a marzo e può protrarsi fino ai primi di novembre, anche se il periodo migliore é quello estivo. Fanno servizio principalmente dei gommoni e la navigazione varia dai 20 ai 30 minuti. Sul sito della nostra Associazione trovate i Diving che noi consigliamo: http://www.tegnue.it/diving.asp »

Da “Le Grand Bleu” al sogno olimpico

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È stato questo il titolo e il tema d’un giorno storico per l’apnea mondiale. Mercoledì 20 giugno scorso, a Roma, nel salone d’onore del CONI, partendo dal trentennale di “Le Grand Bleu” – il film apneistico per eccellenza – è stata rilanciata ufficialmente la candidatura dell’immersione in apnea a disciplina olimpica. Con molte sorprese.

A cura di Romano Barluzzi. Contributo alla redazione: Emanuele Iacomini. Immagini: Fipsas.

Soltanto quando ho cominciato a parlare, ho realizzato fino in fondo dove e con chi mi trovassi. Cosa stessi presentando, chi avessi di fronte. In quella platea composta dalle massime autorità sportive nazionali, dai membri del Comitato olimpico internazionale, dalla presidenza della CMAS, dai presidenti e dirigenti di alcune tra le maggiori federazione sportive di categoria nel mondo, dai moltissimi atleti e personaggi di ieri e di oggi legati all’apnea, nonché registi, attori, giornalisti, fotografi e video-operatori, per non dire di allenatori, tecnici e istruttori – tutti coi propri destini o i propri animi in qualche modo fortemente connessi con le discipline dell’immersione in apnea – c’era tutto ciò che può a buon titolo considerarsi oggi una degna rappresentanza del magico universo sportivo in cui si iscrive l’arte d’immergersi trattenendo il respiro.
Ma vediamo come s’è svolta la manifestazione “From ‘Le Grand Bleu’ to the olympic dream”, anche attraverso le didascalie delle immagini nella fotogallery dell’articolo. Volutamente senza entrare in dettagli troppo tecnici – non ce ne vogliano gli esperti, avremo tempo e modo di tornarci sopra anche prossimamente – bensì per esaltare gli aspetti umani, culturali e anche di natura affettivo-emotiva che hanno pervaso una giornata che, ne siamo certi, nessuno dei presenti potrà dimenticare. Dopotutto, la proposta di far assurgere un’attività sportiva al rango di disciplina olimpica incarna già di per sé l’identità stessa di tale sport: e non c’è dubbio che la portata e lo spessore di quanto presentato in questa memorabile giornata sia stato di natura davvero identitaria. Ma andiamo con ordine.

«Quest’anno ricade il trentennale del film “Le Grand Bleu” e per celebrare tale ricorrenza la CMAS – Confédération Mondiale des Activités Subacquatiques, la FIPSAS – Federazione Italiana Pesca Sportiva e Attività Subacquee, la FFESSM – Fédération Française d’Études et de Sports Sous-Marins e il CONI – Comitato Olimpico Nazionale Italiano hanno deciso di commemorare il film e di ripercorrere, grazie ai filmati e alla viva voce di alcuni dei protagonisti, le varie tappe che hanno condotto l’apnea a diventare uno sport estremamente affascinante e praticato in tutto il mondo.»

Così l’annuncio d’introduzione dell’iniziativa, cui ha fatto seguito subito – giusto per entrare direttamente nel vivo – la proiezione di un bellissimo video di Gian Melchiori (da molti anni e anche attualmente “a capo” della videoripresa subacquea in Federazione) intitolato all’evento e in grado meglio di qualsiasi parola di anticiparne immediatamente il senso e lo scopo. Un cortometraggio magistrale, tra storia, suggestioni e prospettive, ideale sommario d’inquadramento dell’intera giornata.

Ha fatto quindi gli onori di casa, porgendo il benvenuto suo e dell’istituzione che rappresenta, il Presidente del CONI Giovanni Malagò. E già questo non è stato un intervento d’avvio puramente formale: il Presidente, rivolgendosi anche in lingua ai numerosi ospiti e in particolare a quelli stranieri, ha subito conferito una speciale impronta di afflato partecipativo transnazionale all’evento.

Il secondo intervento è stato quello dello Sceicco Al-Fahad Al-Sabah, membro del CIO – Comitato Internazionale Olimpico (alias “IOC Member”, come si trova scritto); già la sua presenza e ancor più la sua esposizione hanno costituito una evidente sottolineatura di conferma ai richiami d’internazionalità che l’evento voleva avere ed ha avuto.
S’è quindi avvicendato ai microfoni Mario Pescante, notissimo ex presidente del CONI e attualmente egli stesso membro del CIO.
L’indicazione tra gli ospiti di Jenny Mann nel suo ruolo di Head of Sport Partnership IOC ha fatto a questo punto da sponda di passaggio verso la successiva attesa relazione, quella del Presidente CMAS Anna Arzhanova. Intervento denso di significati anche simbolici, il suo, come da aspettative. Si pensi – forse non tutti lo sanno… – che l’apnea in realtà, alle prime edizioni dei Giochi Olimpici, c’era già!
Un nuovo, breve filmato ha piacevolmente intrattenuto i partecipanti, finché non è stata la volta di Jean Louis Blanchard, presidente della francese FFESSM. La Francia ha una tradizione apneistica di assoluto rilievo, rievocata dal fatto che nella ricordata prima edizione dei Giochi Olimpici – si trattava dell’inizio del secolo scorso – la prima vittoria nell’apnea fu accreditata proprio a un atleta francese.

S’è a questo punto avvicendato sul palco il Presidente FIPSAS Ugo Claudio Matteoli che, da buon toscano, annunciatosi subito con la battuta di voler parlare solo italiano in quanto rappresentante della federazione nazionale che si occupa dell’apnea, ha introdotto l’ingresso nelle componenti più “tecniche” della narrazione, con tutta la parte che avrebbe ripercorso la ventennale sfida agli abissi dei due leggendari Enzo Maiorca e Jacques Mayol, cuore della trama dell’iconico film “Le Grand Bleu”, per sfociare in tempi più recenti nel mondo delle vere e proprie gare e dei moderni record.

E come non partire proprio con “l’universo Maiorca”? Ecco che di lì a breve, a cominciare dalla figlia del compianto Enzo, Patrizia Maiorca, lei stessa ex campionessa di apnea, il palco si è riempito di… “Siracusitudine”: con lo scorrere sullo sfondo delle straordinarie immagini video di “Nel segno di Archimede”, Tommaso Nobili in persona, marito di Rossana Maiorca (l’altra figlia di Enzo, anche lei campionessa di apnea, prematuramente scomparsa di malattia nel 2005) ha raccontato quell’epoca e descritto anche particolarità tecniche, come la speciale zavorra di discesa da lui progettata, esposta nel mini museo che per l’occasione è stato allestito a vista proprio nello stesso salone d’onore del CONI.
Alle testimonianze dal vivo di Patrizia e Tommaso s’è piacevolmente unita a sorpresa la presenza in sala di Gianfranco Bernabei, regista e produttore (sue le suddette immagini video al momento sullo sfondo), che ha seguito Enzo Maiorca in esclusiva dal 1972 al 1987, dirigendo Enzo anche in due programmi televisivi: “Vita da Sub” e “Mar Rosso”.

Ed è stata subito dopo la volta del mondo che gravitò attorno al co-protagonista del celeberrimo film “Le Grand Bleu”, l’indimenticabile Jacques Mayol (anch’egli tragicamente scomparso nel 2001, non ancora vecchio, nella sua casa all’Isola d’Elba…) attraverso la presenza di colui che nel film lo impersonò, l’attore francese Jean Marc Barr. Al palco, contemporaneamente, è stato chiamato anche un altro attore francese presente, Gregory Forstner, che nel film interpretò Enzo Maiorca da piccolo (mentre l’attore che fece Enzo da adulto fu, com’è noto, il più famoso Jean Reno). Per la cronaca, Jean Marc Barr ha in un certo senso mantenuto il testimone del passaggio all’attualità, in quanto è sua la voce narrante del nuovo film presentato quest’anno all’ultimo EudiShow dal titolo “Dolphin Man” – di cui nell’evento al CONI è stato proiettato il trailer – dove si ripercorrono la vita e le gesta apneistiche appunto di Jacques Mayol che di “Uomo Delfino” portò il soprannome (e che ne dette anche il titolo a un altrettanto storico libro illustrato, “Homo delphinus”).

Sulla rivalità a distanza tra questi due storici pilastri si poté erigere ciò che poi è stata l’apnea dell’epoca di mezzo, quella per intenderci di personaggi alla Umberto Pelizzari, Pipin, Gianluca Genoni, Stefano Makula ecc. Quest’ultimo, presente alla giornata presso il CONI, ha svolto il proprio intervento rammentando tale epoca e tracciando un accenno alle metodiche di preparazione e allenamento di allora che di fatto tentarono tutte una sintesi – sebbene in varie modalità – tra le potenzialità di forza e prestanza fisica che erano state più caratterizzanti lo stile alla Enzo Maiorca e quelle mentali, interiori e psicologiche, appartenute maggiormente all’immagine che Jacques Mayol aveva dato di sé. Anche durante l’intervento di Stefano Makula sono scorse stupende immagini filmate in sottofondo che, mostrando all’opera Umberto Pelizzari, hanno sottolineato come quest’ultimo avesse più volte dichiarato di aver cominciato la sua avventura apneistica cercando di fondere assieme le componenti migliori dell’impostazione Maiorca e delle modalità Mayol, nella convinzione che solo da una sintesi fine tra corpo e mente sarebbero potuti arrivare i risultati migliori, come egli stesso dimostrò con i suoi molteplici successi mondiali e con l’impulso alla divulgazione e alla didattica dell’apnea che ha saputo dare attraverso Apnea Academy.

Né va tralasciato di ricordare che l’apnea intesa come disciplina sportiva a un certo punto ha avuto bisogno di sviluppare il proprio mondo delle competizioni agonistiche, con un mirabile trasferimento di valori dal concetto del record quale exploit individuale a quello di gare vere e proprie intese come confronto tra molti, posti in condizioni di pari opportunità e in un contesto di regolamentazione condivisa e riproducibile ovunque: insomma l’essenza stessa del vero spirito agonistico e olimpico. Ebbene, anche questa fase ha avuto i suoi protagonisti, alfiere tra tutti Michele Tomasi, naturalmente presente alla manifestazione romana, in quanto è proprio grazie all’apporto – nel suo caso particolarmente durevole e incisivo – di atleti e primatisti del genere che l’apnea poté traghettare dal cliché del record a quello dell’agonismo e intraprese la grande espansione nel mondo delle gare che conosciamo oggi.

E sbarchiamo così nell’attualità dell’immersione in apnea, quella fatta di grandi squadre nazionali, di molti atleti giovani e fortissimi, di tecniche di preparazione sofisticate che assimilano, calibrandole perfettamente, le prestazioni fisiche e le doti mentali, l’allenamento muscolare e quello votato al binomio interiore rilassamento/concentrazione, centrando risultati talvolta strabilianti, che fanno dubitare di qualsiasi previsione su dove possano davvero trovarsi i limiti estremi delle performance umane nell’immersione in apnea.

Tutto ciò è personificato dall’ultima generazione di atleti – la più recente – alcuni dei quali sono stati chiamati assieme sul palco del salone d’onore del Coni, a cominciare dall’odierna regina dell’apnea mondiale, l’italianissima Alessia Zecchini, i cui ori, primati e record mondiali sono già innumerevoli (ma ci torneremo) e che, pure mentre pubblichiamo questo articolo, sta vincendo di tutto al Vertical Blu 2018; in sua compagnia Alexey Molchanov, della Federazione Russa, protagonista del primato di 122 m di profondità in assetto costante con monopinna, tanto per fare un solo esempio di richiamo prestazionale; e poi Alice Modolo, Arthur Guerin Boeri, Vincenzo Ferri. Attraverso le rispettive testimonianze, nonché con lo scorrere dei loro filmati, sono stati per la circostanza la voce unanime dei valori migliori legati all’immersione in apnea: la ricerca dell’interiorità, la spettacolarità del gesto atletico, l’amore per il mare come ambiente naturale, l’affinità per l’elemento liquido, i risvolti educativi e molto altro ancora. E colpisce come questi e altri valori si ritrovino comuni a personaggi di provenienze e culture tanto diverse. Ma poi ci si ricorda che è esattamente questa l’essenza dello spirito di Olimpia! E allora tutto torna.

A questo punto – prima di concludere – non possiamo esimerci dal riportare una brillante sintesi che abbiamo ricevuto subito dopo l’evento al CONI, composta da Emanuele Iacomini, dell’ufficio comunicazione e marketing della Federazione, rievocativa di quel ventennio di sfide tra i due grandi Maiorca e Mayol raffigurato nel film “Le Grand Bleu”: è un brano che riteniamo utile per i più giovani che volessero farsi un’idea di quell’epoca d’oro dell’immersione in apnea e delle atmosfere che fu capace di indurre nel pubblico subacqueo di allora. Eccolo:

«Uno andava giù di potenza. L’altro andava giù di grazia. Uno imprecava. L’altro meditava. Uno era Enzo Maiorca. L’altro era Jacques Mayol. Uno era nato a Siracusa. L’altro era nato a Shanghai. Maiorca e Mayol. Mayol e Maiorca. Due esseri umani che più diversi non si può. Due rivali, giocoforza. Due “re degli abissi”. Ancora oggi, grazie alle loro personalità, Enzo e Jacques regnano incontrastati sul pianeta delle apnee. Maiorca aggrediva la profondità con rabbia iperventilata. Mayol vedeva nei suoi record la rappresentazione del mortale limite umano. Due modi di vedere la stessa cosa, due risvolti della stessa passione: l’apnea. La mancanza di respiro, di aria, di fiato. Maiorca: dal 1960 al 1976 porta sempre più in basso (!) i suoi record portando così sempre più in alto l’orgoglio sportivo italiano. Mayol: nato a Shanghai e cresciuto ai Caraibi, è diventato un vero e proprio personaggio pubblico in Italia grazie al suo acquatico braccio di ferro con il Maiorca nazionale. La sfida tra i due è stata un continuo colpo di scena, fatto di respiri trattenuti, immersioni nel buio, parole smozzicate. Maiorca così sanguigno, plateale, scorbutico. Mayol così distante, assente, discreto. Eppure qualcuno aveva deciso che i due, così diversi, dovessero incontrarsi e poi scontrarsi su di un argomento che, fino a poco prima del loro avvento, nessuno (o quasi) conosceva: l’apnea.

Maiorca dal collo taurino e dalle spalle forti. Mayol dal baffo misterioso e dal fisico da playboy in disarmo. Che due personaggi! Inimitabili. Due guerrieri delle profondità, due veri signori degli abissi. Eppure, se Maiorca non avesse incontrato sulla sua strada Mayol, e viceversa, nessuno dei due sarebbe diventato così famoso da entrare nella storia, e non solo dell’apnea. La loro rivalità ha portato a galla, in tutto il mondo, la pratica sportiva dell’apnea. La loro rivalità li ha consegnati per sempre alla storia grazie alle loro imprese, ai loro record e a come li raggiungevano. Maiorca di forza. Mayol soprannominato l’uomo delfino. Enzo combatteva con l’acqua. Jacques vi si infilava leggiadro, quasi a non voler disturbare. La loro respirazione prima di scendere giù, nel blu dipinto di blu, proveniva da scelte opposte. Maiorca superava ogni volta sé stesso immerso in una specie di incontro-scontro con i suoi polmoni. Mayol praticava yoga e imparava a respirare dai delfini. Maiorca era sempre superpresente in ogni momento delle sue discese. Mayol sembrava invece entrare in una specie di trance. Maiorca dava la sensazione di combattere con la mancanza di ossigeno come un pugile sul ring. Mayol univa anima e corpo alla natura con la disciplina orientale. E poi, a un segnale che solo loro due potevano dare, giù. In silenzio. Senza respiro. In un altro mondo. A cercare chissà cosa. Un record? Una profondità? Un segnale? No. C’era molto di più. C’era la ricerca dell’essenza dell’uomo. E il fatto che i due fossero così diversi caratterialmente e che anche le loro tecniche fossero così distanti come approccio, rendeva ( e rende) Maiorca e Mayol insuperabili nella ricerca e nella pratica dell’apnea. Non a caso il regista francese Luc Besson, nel 1988, dedicherà ai due apneisti un suo bellissimo film: Le Grand Bleu. Maiorca ha toccato i 45 metri nel 1960, gli 80 metri nel 1973 e i 101 metri nel 1988. Mayol è sceso a 60 metri di profondità nel 1966, a 100 metri nel 1976 e a 56 anni raggiunse addirittura i 105 metri. Della rivalità fra Maiorca e Mayol rimane oggi il ricordo di due sportivi che hanno insegnato, ognuno a modo loro, ad amare e rispettare il mare e i suoi abitanti. E a ricercare sè stessi nel silenzio della solitudine dell’apnea.»

L’intervento conclusivo della giornata al Coni non avrebbe potuto essere altro che quello della presidente della CMAS Anna Arzhanova, una ulteriore sottolineatura riassuntiva del senso dell’intera manifestazione: un evento che, oltre a commemorare il film e a ripercorrere, grazie ai tanti video e alla viva voce di alcuni dei protagonisti, le varie tappe che hanno condotto l’apnea a diventare uno sport tanto affascinante e così praticato in tutto il mondo, ha ottenuto il risultato di dimostrare come questa disciplina possegga oggi tutte le carte in regola per entrare a far parte del programma olimpico. Un obiettivo, quest’ultimo, non certo facile da raggiungere, ma che, con il contributo fattivo di tutte le parti in causa, potrebbe anche tramutarsi in una splendida realtà.

Le balene prediligono il jazz

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Le megattere della Groenlandia compongono musica e poi la cantano. In modi particolarissimi. Sulle finalità di una simile “arte” ancora nient’altro che supposizioni.

A cura della Redazione. Foto: by Wikipedia, Dr. Louis M. Herman – NOAA Photo Library: sanc0602 Disegno: Chris huh

Secondo una ricerca triennale condotta nello stretto di Fram, vicino alla Groenlandia e alle isole Svalbard, le balene megattere della Groenlandia “cantano” canzoni estremamente differenziate l’una dall’altra. E di questi motivi canori ne sono stati registrati e analizzati ben 184 nel periodo di riferimento dello studio. Simili risultati sono frutto di un’indagine sul campo condotta tra il 2010 e il 2014 da ricercatori dell’Università di Washington e pubblicata attualmente nelle pagine della rivista Biology Letters, dopo tutto il lavoro di decodifica e analisi dei segnali raccolti.
Canti del genere sono rari nei mammiferi, tra i quali di solito si registrano piuttosto vocalizzazioni di richiamo con caratteristiche di marcata ripetitività. Mentre nel caso delle balene appartenenti alla specie principale oggetto dello studio, la Megaptera novaeangliae – come già risaputo anche per la Balaena mysticetus – gli studiosi si sono trovati alle prese con suoni armonici marcatamente caratterizzati e definiti da più frequenze e elementi modulati in ampiezza, secondo combinazioni di “frasi”, “sub-frasi” e organizzati in lunghi “periodi” e “temi”.
Alcuni hanno ritenuto di poterli paragonare a composizioni di musica jazz.
Nelle megattere in particolare, le più estesamente studiate, si è rilevato anche che le canzoni sono simili all’interno della stessa stagione per un’intera popolazione; si verifica poi un’evoluzione graduale e uniforme nel corso del trascorrere della medesima stagione; ed è stato documentato anche un trasferimento di tipi di motivi canori da una popolazione a un’altra in maniera direzionale.
La particolare organizzazione gerarchica dei parametri della struttura sonora di questi canti nonché la loro estrema diversificazione l’uno dall’altro e la grande varietà di tipologie prodotte rende comunque straordinaria questa specie di balene tra tutti i mammiferi esistenti al mondo.
Anzi – va precisato – da quanto detto si deduce che in realtà non si tratta propriamente di motivi “solo” cantati, bensì prima ancora letteralmente “composti”. Proprio così: le balene megattere compongono musica! Ciò che ci ritorna di questa stupefacente constatazione è quel senso di mistero profondo quanto i bui e gelidi mari artici dove durante la notte polare le “balene musiciste” vivono la loro incredibile vita canora e l’inevitabile domanda connessa: «quale “maestro” avrà mai potuto trasmettere a simili creature la loro arte?»
Insieme alle finalità di una simile bravura questo resta un mistero che possiamo solo contemplare, nella speranza che ci renda migliori verso la natura. E verso le balene!

La balena cantante in rapporto alla sagoma umana

Cime tempestose (sommerse)

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In perlustrazione con i robot subacquei sui massicci montuosi in fondo al mar Ligure e Tirreno. A caccia di molte sorprese. Che fanno assomigliare i nostri fondali a quelli oceanici più di quanto potessimo immaginare

A cura della Redazione. Immagine apertura: NOAA, presso https://oceanexplorer.noaa.gov/ Immagini interne a cura degli enti e ricercatori citati a fondo articolo e in didascalie

Immaginate di percorrere il fondo del Mediterraneo – in questo caso soprattutto il mar Ligure e il mar Tirreno – ma come se vi trovaste nei dintorni di Firenze e procedeste in auto verso Bologna; o in pianura padana diretti verso nord. A un certo punto trovereste l’Appennino nel primo caso, le Alpi nel secondo. Ecco: sul fondo del mare succede la stessa cosa. Da una piana abissale profonda – mettiamo – 4mila metri a un certo punto potrebbe ergersi una montagna alta quanto l’Etna, la cui cima arriverebbe a oltre 3mila metri dal fondale ma resterebbe perciò ancora sotto la superficie salata di circa mille metri. Ora immaginate di immergervi – ovviamente a bordo di un sottomarino – fin su questa “secca” con il cappello a quasi un chilometro di profondità. Cosa trovereste? Ebbene la risposta a questa domanda è lo scopo di una ricerca tutta italiana, partita due anni fa: il progetto BIOMOUNT – Biodiversity Patterns of Seamounts, finanziato dal MIUR, e quello del DISTAV Dipartimento Scienze della Terra dell’Università di Genova.
Lo studio congiunto è guidato da Marzia Bo, ricercatrice di zoologia del DISTAV. L’ambizioso obiettivo è studiare ben 11 nuove vette e relativi seamounts tra mar Ligure e Tirreno settentrionale, tutto ciò considerando che si calcola esistano oltre 250 monti di questo genere in Mediterraneo, che se ne conoscono – e solo da poco – appena una decina e che stavolta si intende superare agevolmente anche la barriera delle grandi profondità grazie alla tecnologia. Quale? Quella messa a punto dall’ingegner Guido Gay, cioè un ROV – Remotely Operated Vehicle appartenente alla generazione dei Pluto: si tratta in pratica di un robot subacqueo a controllo remoto filoguidato, pilotato dalla superficie a bordo del catamarano da ricerca Daedalus, in grado di raggiungere i 4mila metri di profondità, esplorando quindi una fascia finora poco propensa a lasciarsi perlustrare da un osservatore diretto. Pluto, invece, riesce a mandare in superficie in tempo reale le immagini a colori – dettagliatissime, e sia fotografiche sia video – che illumina e riprende a quella quota. È un po’ come avere i nostri umani occhi puntati direttamente sul fondo. Inoltre, il modello della classe impiegata in questa ricerca – il MultiPluto 02 – è dotato anche di braccio meccanico robotizzato per manipolazioni e prelievi di reperti. A proposito: il paragone del nostro ipotetico monte sommerso (= seamount) con l’Etna non è stato casuale, dato che in prevalenza questi seamounts sono proprio di origine vulcanica, dunque ex vulcani, normalmente estinti o talvolta ancora attivi.

Sotto indagine, al momento, è il classico “pezzo forte” della serie: il monte Spinola, 40 miglia al largo della località di Ventimiglia. Si erge dal fondo per quasi 2mila metri (precisamente 1.970), ma anche in questo modo alla sua vetta mancano ancora altri 2 chilometri per raggiungere la superficie. Proporzioni davvero ciclopiche. Su una vetta così non c’è mai stata anima viva, non si sa cosa ci sia e nessuno ci ha mai nemmeno pescato sopra. Ma molti elementi arrivano già dalle altre cime: nel mar Ligure, l’Ulisse (510 m di profondità), il Penelope (450 m), lo Janua (810 m), l’Occhiali (300 m sott’acqua, 700 di altezza dal fondo), il Santa Lucia (150 m di profondità). Mentre nel Tirreno abbiamo le vette dei seamounts Etruschi (310 m di prof, 700 di altezza dal fondo), Barone (150 m di prof, 1.200 di altezza), Cialdi (300 m dalla superficie, 900 dal fondo), Vercelli (60 m di prof, 1.000 di altezza), Tiberino (300 dalla superficie), Albano (250 m di prof), Palinuro (70 m dalla superficie per 1.500 dal fondale). Sullo Janua, per esempio, è stata rilevata una biodiversità di un livello inaspettato, comprendente un nuovo corallo nero, il Parantipathes sp («“sp” è l’indicazione che si attribuisce alle specie in via di descrizione, significa in sostanza che dobbiamo ancora assegnargli un nome definitivo», ha spiegato Marzia Bo. Al nuovo corallo hanno fatto compagnia una gorgonia particolare, la Chelidonisis aurantiaca, poiché, essendo tipica di Caraibi, Golfo del Messico e Azzorre, nessuno se l’aspettava qui. E il raro grongo bicolore Chlopsis bicolor, in precedenza solo pescato occasionalmente e ora invece fotografato per la prima volta nel suo habitat naturale. A maggior profondità corrisponde maggior interesse scientifico, giacché si cerca di ottenere configurazioni bionomiche delle cime – prima inesistenti – e non solo geomorfologiche.

Ancora a proposito dello Janua è sempre la ricercatrice ad aggiungere che «s’è rivelato il più ricco, ricoperto di foreste di coralli e spugne mai visti prima». Ma, sempre a proposito di sorprese, anche le altre cime hanno le proprie. «Alcune ospitano invece specie di coralli più noti e molto longevi, come la Leipathes glaberrima, che sappiamo vivere oltre i 2mila anni…», aggiunge ancora la ricercatrice, per poi così sintetizzare le somiglianze con i fondali oceanici: «Nel Mediterraneo profondo vivono diverse specie atlantiche: Farrea, Chelidonisis, Stylocordyla, Desmophyllum ecc. La loro presenza nel mar Ligure suggerisce che abbiano utilizzato le cime delle montagne come passaggi, corridoi di dispersione larvale, ampliando la loro distribuzione biogeografica». Questo non soltanto è un meccanismo di diffusione e di colonizzazione a distanza già noto anche ad altre latitudini, nel senso che accade già in seamounts oceanici, ma in Mediterraneo è confermato anche da un altro filone di ricerca che indaga i cetacei e gli squali (nella loro veste di “top predators”): anche la loro assidua presenza è accertata proprio intorno alle vette. I seamount sono insomma zone di intenso foraggiamento per i predatori apicali (cioè al vertice della piramide alimentare) «perché le correnti turbolente che abbiamo registrato intorno alle vette mettono in circolazione molti nutrienti», dichiara la ricercatrice in una recente intervista al settimanale “il Venerdì di Repubblica”. Insomma intorno alle vette in fondo al mare avviene un po’ la stessa cosa che accade alle cime delle montagne fuori dall’acqua: la presenza di intense e frequenti turbolenze. Nelle montagne d’alta quota saremmo alle prese con tormente di vento e di neve. Sott’acqua si tratta di scontri tra correnti liquide, non certo meno violenti. E proprio la perturbazione intensa di queste acque è con ogni probabilità ciò che assicura la ricchezza di vita e l’alto grado di biodiversità registrabili in questi habitat estremi, e perfino la trasmissibilità a maggiori distanze di molte delle forme di organismi che li caratterizzano.
Il gruppo di ricerca in questione è composto, oltre alla rammentata Marzia Bo, da Martina Coppari, Francesco Massa, Federica Costantini, Guido Gay, Giorgio Bavestrello e sono coinvolti come enti italiani l’Università di Genova; l’Università di Bologna; nonché l’associazione AzioneMare, dalla Svizzera. Per il momento, ciò che sembra già emergere con chiarezza è che in profondità il Mare nostrum, insomma il Mediterraneo, rassomiglia in tutto e per tutto – e comunque molto più di quanto potessimo aspettarci – ai fondali oceanici, all’Atlantico in particolare. E chissà che altro verrà fuori dall’esplorazione del seamount Spinola? Restate connessi, vi terremo aggiornati.

1-Pao Hires, una coppia di seamount oceanici differenti, dal sito di NOAA Ocean Explorer: dal punto di vista biologico potrebbero rivelarsi sorprendentemente simili a quelli ora sotto indagine nel Mediterraneo

2-Foresta del corallo nero Leiopathes glaberrima sulla sommità del seamount Santa Lucia, – 150 m

3-Il granchio Paromola cuvieri all’interno di un campo gorgoniano in cima all’Ulisse Seamount, a 500 m di prof.

4-L’esattoinellide Farrea sp. sulla cima del seamount Janua, 850 m di prof.

5-Il catamarano da ricerche Daedalus, reso celebre dal suo comandante, l’ing. Guido Gay

6-Marzia Bo, Guido Gay e Martina Coppa sul ponte del catamarano da ricerche Deadalus insieme al ROV Multipluto 2

7-logo DSBS – logo BIOMOUNT – logo DISTAV

8- Altro seamount oceanico dal sito di extrememarine.org.uk

9- Habitat di uno dei seamount (montagne sottomarine) mediterranei… nonostante le elevate profondità, non mancano segni umani, come residui di lenze e altri sistemi da pesca; il che pone l’accento su un altro degli scopi del progetto, che è la salvaguardia ambientale di questi luoghi straordinari

10- Altra immagine di repertorio sull’operatività della famiglia di ROV Pluto (con in primo piano l’ing. Gay), oggi in grado di condurre esplorazioni con assoluta accuratezza a 4mila metri di profondità

S’avvicinano i campionati italiani di Fotosub

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Grande partecipazione anche quest’anno all’importante manifestazione in programma dal 22 al 29 settembre all’Argentario
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A cura di Mario Genovesi

Il numero dei concorrenti è davvero consistente e in crescita rispetto all’anno scorso, con circa 140 fotografi, modelle e assistenti che prenderanno parte ai tre Campionati, individuale Reflex, individuale Compatte e per Società, sintomo di un interesse sempre più importante verso questa disciplina sportiva e artistica che trova tantissimi seguaci anche fuori dall’ambito Fipsas.
L’Argentario presenta fondali tra i più affascinanti nel Mediterraneo, con splendidi anfratti, grotte coloratissime, pareti a strapiombo e un’incredibile varietà di flora e fauna che offrirà la possibilità, ai fotografi partecipanti, di esprimersi al meglio delle loro capacità tecniche e artistiche in interpretazioni personali che daranno alle immagini una loro identità e forza comunicativa.
L’organizzazione della manifestazione è stata affidata alla società sportiva GB Sub di Firenze che si è impegnata con tutte le sue forze per un’ottima riuscita della manifestazione. La parte diving sarà gestita dal Centro Immersioni Costa d’Argento scelto per l’affidabilità e la professionalità maturata in tanti anni di attività all’Argentario.

I campi gara saranno gli splendidi fondali dell’Argentarola, lo Scoglio del Corallo, Cala Grande e Punta del Bove. A giudicare le immagini presentate dai concorrenti una giuria di altissimo livello a partire dal presidente di giuria, Gianni Pecchiar e tutti gli altri giurati, Adriano Morettin, Angelo Mojetta, Mimmo Roscigno e Mirko Zanni, personaggi che non hanno certo bisogno di presentazione.
Da parte mia un grande in bocca al lupo a tutti concorrenti che avranno il compito di valorizzare al meglio questo importante patrimonio naturale e preservarlo nella sua integrità.

Questo è il link che rimanda al sito della Fipsas dove vengono riportati gli elenchi dei concorrenti
http://www.fipsas.it/news/2902-campionati-italiani-di-fotografia-subacquea-definiti-gli-elenchi-dei-fotografi-e-delle-squadre-partecipanti-2


Medusa killer? No, grazie!

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Attenzione: questa cubomedusa è presente in Mediterraneo. Ma è diversa dall’australiana. E non uccide come quella! Un pizzico di chiarezza su questo e altri casi, prima che la disinformazione prenda il sopravvento.

A cura della Redazione. Foto Carybdea marsupialis di Chiara Scrigner.

Prima che la stampa generalista possa farsi venir voglia di assassinare qualche altro biologo marino o subacqueo con ulteriori sfondoni agostani – di cui non è dato sapere quanto fossero casuali o meno – oppure qualche leone da tastiera sia colto dall’irrefrenabile impulso di sparare sciocche fake-news in rete, offriamo il nostro umile contributo di chiarezza circa la presenza di meduse realmente pericolose nei nostri mari.

È infatti ancora vivissima l’eco di aver visto riportare nientemeno che su “La Stampa” redazione on-line la notizia del “misteriosissimo”, “sconosciuto”, organismo marino, “pieno di tentacoli”, di cui addirittura “esperti interpellati ad hoc” (senza peraltro citare chi!) non avevano saputo fornire elementi d’identificazione, mentre di altro non si trattava se non del bellissimo “Astrosparthus mediterraneus”, alias “stella gorgona”, arcinoto a quasi tutti i subacquei.

Né possiamo tacere il report dell’episodio di morso al polpaccio – con conseguenti 20 punti di sutura – ai danni d’un bagnante mentre sguazzava in acqua bassa, davanti a una spiaggia di Torino di Sangro, provincia di Chieti, in Abruzzo; episodio che il sito “caffeinamagazine” ha attribuito a ciò che definiva “squalo blu” nel relativo articolo, non solo senza riportarne il nome scientifico (Prionace glauca), ma addirittura chiamandolo per ben 5 volte “ventresca”, probabilmente per voler dire “verdesca”, parola che però compare una sola volta come tale. Una svista? Un refuso? Un correttore automatico che s’è messo a dare i numeri? Non abbastanza, per giustificare un simile 5 a 1 a favore dello sbaglio, vi pare? E c’è forse qualcuno che ignora che “ventresca” è un termine attribuito comunemente a una parte del tonno?

Ma veniamo a noi. Qualche giorno fa, durante un’immersione notturna, è stata avvistata e fotografata nel golfo di Trieste, di fronte a una spiaggia, nientemeno che una “cubo-medusa”, o “medusa-scatola”, quella che vedete nella foto d’apertura. Molti erano ancora memori del clamore di due morti accertate verso fine luglio – entrambe bambini, nella stessa zona delle Filippine – purtroppo vittime per l’appunto di una “cubo-medusa”, la famigerata “vespa di mare” (o box-jellyfish), letale in molti casi per l’essere umano nel giro di pochissimi minuti dal contatto con le sue nematocisti. Il dubbio a prima vista può sorgere spontaneo: sono lo stesso organismo?

La risposta è “NO”! Anche se i due organismi presentano – come vedete – diverse similitudini, al punto da far risultare inquietante l’avvistamento triestino, non si tratta affatto dello stesso organismo, né i due hanno la stessa pericolosità. La “versione nostrana”, oggi diffusa nel Mediterraneo specie in Adriatico – sebbene non frequente e d’originaria provenienza atlantica – è la Carybdea marsupialis, accreditata di un potere urticante simile o anche superiore a quello della “Pelagia noctiluca”, tale da porla spesso in testa alla classifica della tossicità tra le meduse presenti nei nostri mari, ma non fino a risultare mortale. Mentre l’altra, chiamiamola con licenza di approssimazione “la versione orientale” in questione, è la terribile Chironex fleckeri, tipicamente australiana o dell’indopacifico e assente in Mediterraneo, in grado di uccidere entro qualche istante.

Le cubomeduse hanno comunque in comune apparati sensoriali complessi: ne è nota l’elevata sensibilità alla luce, per cui incontrarle in notturna e nei pressi dei litorali è più facile che di giorno (sarebbero infatti attratte dall’illuminazione della costa nella notte, così come dalle luci dei subacquei); una grande velocità di movimenti e di spostamento; una trasparenza quasi totale, che rende difficile avvistarle di giorno; dimensioni molto piccole del cappello a forma di scatoletta (circa 3 cm di lato la Carybdea marsupialis) e filamenti molto più lunghi del corpo, nella Carybdea di circa 10 volte, nella Chironex anche molto di più. I filamenti – che è improprio chiamare “tentacoli” – sono 4 nella Carybdea (uno per ciascun angolo di base del “cubetto” che costituisce il corpo) e in gran numero invece nella Chironex. Anch’essi molto trasparenti, pressoché invisibili, donde il rischio del contatto e la conseguente pericolosità, sebbene per la Chironex esista comunque una sorta di antidoto, efficace però solo se somministrato immediatamente.

Resta indiscusso il fascino un po’ onirico del fortuito incontro notturno nel mare di Trieste, che è valso alcuni scatti fotografici degni di immersioni ben più particolari, come le “black-water” – o “black-dive” –, delle quali non ha avuto nulla da invidiare. Provare per credere!

Scampati alla grotta

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Ha appassionato il mondo la vicenda dei ragazzi intrappolati nella grotta in Thailandia e della macchina umana del soccorso messa in campo per salvarli tutti. Un’operazione con la subacquea come protagonista. Ripercorriamo l’accaduto attraverso la voce di chi ne ha autorevolmente seguito e divulgato ogni passaggio. Per farcene un’idea più precisa

A cura della Redazione. Immagini: by Pasquale Longobardi, SIMSI – Società Italiana Medicina Subacquea Iperbarica e accreditamenti connessi

Di solito da queste pagine digitali non ci occupiamo della cronaca in senso stretto. Preferiamo gli approfondimenti che non necessariamente sono legati al momento, anzi. E, pur avendo seguito anche in questo caso la linea editoriale che ci contraddistingue, evitando ogni commento durante lo svolgimento di quei fatti (al contrario di tanti, troppi come al solito…), non possiamo tuttavia esimerci oggi dal ripercorrerli come analisi di un’attualità che, a distanza di appena due mesi scarsi, non può certo dirsi lontana. Insomma ci fa piacere mostrarci “sul pezzo” ma, nel rispetto dei nostri lettori, scegliamo di farlo adesso, che è ancora un’attualità però estranea ai clamori della ribalta.
L’altra nostra cura – oltre alle tempistiche – è sempre nei confronti della correttezza delle informazioni testuali e visive che riportiamo: e qui veniamo al dunque. Nei giorni della disgraziata vicenda, quando chiunque e comunque ne parlasse faceva inevitabilmente molti contatti, e mentre trattenevamo il fiato come tutti per la sorte di quei ragazzi, abbiamo assistito alla consueta prolusione di esternazioni da parte di innumerevoli autori improvvisamente esperti di tutto, dalle immersioni alla speleologia, dalla medicina alla psicologia, passando naturalmente per la geologia e la puericultura.
Il peggio si è toccato quando alcuni personaggi (anche qualche ben noto “professionista” dell’informazione), a corredo dei propri commenti, hanno postato immagini che nulla avevano a che vedere con quanto stava accadendo nella grotta in Thailandia! E, naturalmente, guardandosi bene dall’informare che si trattava di immagini da repertori, e per giunta altrui! Non che qui c’interessino le solite questioni sul copyright, quanto rilevare che tali corredi iconografici – foto ma soprattutto video – hanno restituito un’immagine completamente diversa dal contesto degli eventi: in un video – rilanciato da molte mani diverse – si vedevano acqua limpida, perfetta illuminazione e tre sub affiancati a percorrere una sorta di ampia caverna! In un altro si vedeva, come esempio di una delle tecniche inizialmente ipotizzate per mettere in salvo i ragazzi, un’esercitazione dimostrativa che simulava un contesto del tutto opposto a quello della situazione in corso, con tanto di barelle immergibili (toboga) differenti da quelle impiegabili nell’evento reale… Tutto ciò e molto altro ha contribuito – consapevolmente o meno – a una sostanziale disinformazione! Che a sua volta ha generato una percezione assolutamente distorta di una realtà già difficile di per sé da immaginare e che proprio per questo avrebbe avuto bisogno semmai di ancor maggiore puntualità divulgativa.
Guardandoci intorno per cercarne un po’, troviamo ci piaccia ancor oggi – anche per sintesi, chiarezza e partecipazione – soltanto quella che ha contraddistinto il resoconto continuamente assicurato in quei giorni dal Dr. Pasquale Longobardi, presidente di SIMSI – Società Italiana di Medicina Subacquea e Iperbarica nonché direttore sanitario del Centro Iperbarico di Ravenna, sia attraverso il proprio profilo sia mediante la pagina di SIMSI stessa. Ripubblicare qui di seguito – con il suo permesso – una serie dei suoi post di quei giorni collegati tra loro come un solo diario crediamo sia qualcosa di veramente utile per chi avesse desiderato farsi un’idea più aderente alla realtà e non ci fosse riuscito prima.
Tutti i seguenti contenuti dei post sono stati pubblicati, talvolta a poche ore l’uno dall’altro, durante le fasi cruciali dei soccorsi, a ridosso dei giorni tra il 6 e il 10 luglio, data quest’ultima del completamento del salvataggio.

«La SIMSI – Società Italiana Medicina Subacquea e Iperbarica sta seguendo da vicino la vicenda dei ragazzi intrappolati nella Grotta Tham Luang in Thailandia, in contatto con i brillanti medici subacquei della nostra comunità internazionale.
SIMSI esprime cordoglio (sono amareggiato, triste) per l’incidente fatale a Saman Kunan, abile subacqueo della marina thailandese, occorso durante le operazioni di salvamento dei bambini intrappolati. La percentuale di ossigeno nella grotta è al 15% (limite minimo per la sopravvivenza). Sistemati cinque chilometri di tubazione per insufflare ossigeno nella grotta. Difficile che i bimbi, specialmente i due più fragili (e con il passare del tempo anche gli altri saranno deboli), possano immergersi per un tragitto di 3-5 chilometri con passaggi stretti. 
Pare che l’incidente fatale per Saman sia stato causato da esaurimento aria nella bombola durante l’immersione di ritorno al campo base. I giornali parlano di “ipossia”. In realtà, nelle bombole (lavorano in circuito aperto) la pressione parziale dell’ossigeno è sufficiente. Saman era un atleta di triathlon (fisicamente forte). La morte sarà stata probabilmente per incidente cardiaco facilitato dallo stress psichico e fisico (stanno lavorando H24). Saman è un eroe impresso nei miei sentimenti.

SIMSI continua a seguire con apprensione il salvamento dei Wild Boars in Thailandia.
L’allenatore (25enne) e un ragazzo (sono 12 tra 11 e 16 anni) sono molto deboli: scartata l’opzione di attendere, potrebbero volerci 3-4 mesi. Ci si aspetta l’evacuazione tramite immersione Hanno insegnato a nuotare a chi non sapeva farlo. Più difficile per l’immersione: acqua con visibilità zero (fango) e un paio di strettoie dove è necessario separarsi dalle bombole. 
Spero che decidano di affidare ogni ragazzo a una guida (più un “angelo” a tutela della sicurezza di entrambi) che sia la stessa fino all’uscita, confidando nelle caverne intermedie per una pausa. Ciò per creare una bolla di fiducia tra il ragazzo e la guida (“campo dipendenza”) che faccia da scudo nei momenti di difficoltà. Sarebbe poco saggia la catena di soccorritori. Genererebbe confusione nei ragazzi e un anello potrebbe spezzarsi (problemi a un soccorritore). 
Confido nel fatto che sono adolescenti: voglia di vivere, cervello plastico all’apprendimento, incoscienza dei reali rischi e percezione di avventura. In bocca al lupo, #SIMSI prega per voi.

Grotta Tham Luang (Mae Sai, Thailandia). Ultime notizie by SIMSI.
Un medico australiano speleosub (forse Richard Harris) domenica ha esaminato i ragazzi e ha approvato l’evacuazione. Accadrà tra oggi e domani (quando arriverà il Primo Ministro, Gen. Prayut Chan-ocha) grazie a 13 subacquei internazionali e 5 incursori della Marina thailandese. Il percorso di 1,5 km dall’ingresso alla “terza camera” è attualmente percorribile (il livello dell’acqua si è ridotto di 30 cm acqua grazie al pompaggio). Per la restante parte sommersa pare saranno utilizzate maschere facciali con bombola in configurazione sidemount. Il problema saranno le strettoie.
In una lettera congiunta i ragazzi hanno detto: “Non preoccupatevi, siamo in buona salute”. Hanno chiesto agli insegnanti di non assegnare troppi compiti a casa. Hanno espresso amore per i genitori. Titun, il più giovane, ha espresso il desiderio di mangiare crocchette di pollo fritto (mio figlio Lorenzo, ne chiederebbe 12mila).
I ragazzi sono dentro da 15 giorni. Da lunedì 2 luglio sono nutriti con pacchetti di gel energetici.
Il pensiero va all’eroe Saman Kunan (pare sia morto per esaurimento dell’aria nelle bombole mentre usciva dalla grotta). Le preghiere, l’amore è per i 12 Wild Boar e l’allenatore.

Grotta Tham Luang (Mae Sai, Thailandia). Ultime notizie by SIMSI: Quattro ragazzi dei Wild Boar (quelli che hanno meglio superato l’apprendimento) sono già al Prachanukroh Hospital in Chiang Rai. Le operazioni sono sospese per circa dieci ore, il tempo di ripristinare la scorta di ossigeno (non agevole in quel territorio). 
Applauso della #SIMSI ai due subacquei inglesi Richard Stanton (ex Vigile del Fuoco, pluri-premiato per altri simili salvataggi) e John Volanthen – in foto – che hanno trovato i ragazzi (dopo nove giorni di ricerca) e agli altri 16 subacquei che evacueranno i Wild Boar. Così come ai 90 subacquei (50 di provenienza internazionale) coinvolti a supporto delle operazioni.

Forza Wild Boar! (Grotta Tham Luang, Mae Sai, Thailandia). Ultime notizie by SIMSI: Ripristinate le scorte di aria compressa e ossigeno (tra poche ore) riprenderà l’evacuazione. Saranno gli stessi subacquei che hanno già salvato i primi 4 ragazzi a recuperare gli altri, a gruppi di quattro. 
I 12 ragazzi appartengono alla comunità povera che vive al confine tra Tailandia e Myanmar (ex Birmania). Il vero allenatore dei Wild Boar è Nopparat Khanthavong (37 anni). Ekapol Chanthawong – Ekk (25) che è nella grotta è il suo sostituto. Il giorno dell’incidente, Ekk aveva l’incarico di allenarli (percorso in bici per i monti) in preparazione per la partita serale. Non rientrando a casa, i genitori si sono allarmati. E’ stato il giovane Songpol Kanthawong (13 anni) – che non era andato con il gruppo – a segnalare la grotta come destinazione degli amici (dove sono state trovate le bici). Ekk, orfano a 10 anni, ha studiato come monaco. Prima dell’arrivo dei soccorsi ha dato tutto il suo cibo ai ragazzi, indebolendosi. Li ha motivati. Nopparat ed Ekk avevano, faticosamente, trovato degli sponsor che, a fronte dei successi scolastici, regalavano ai ragazzi attrezzatura per lo sport (magliette, scarpe). L’obiettivo era farli diventare professionisti per emanciparli dalla povertà. Lo scambio rendimento scolastico = premio per lo sport sarebbe utile anche per i ragazzi italiani.
I Wild Boar (“cinghiale”) stanno già diventando un esempio per gli studenti thailandesi: nelle scuole sono stati affissi manifesti per spingere l’apprendimento delle lingue straniere. Il messaggio segnala che i soccorritori parlano inglese: per salvarsi in condizioni di pericolo è necessario conoscerlo. Sarebbe utile anche per i ragazzi italiani.
#SIMSI prega per il successo completo dell’evacuazione ed è vicina ai soccorritori, in particolare ai subacquei e al personale sanitario nel luogo dell’incidente e nel vicino ospedale Prachanukroh Hospital in Chiang Rai.»

Un inciso: il giorno 9 luglio, alle ore 16:48, Pasquale Longobardi – come preannunciato – è in diretta su RAI 1,alla trasmissione “La vita in diretta”, dove insieme a Valerio Tossi Albertini (CERN) e Danila Pescina (psicoterapeuta), può fornire approfondimenti sulle difficoltà e speranze del salvataggio dei ragazzi intrappolati nella grotta. Idem circa le tematiche sulle tecniche di assistenza medica in ambienti estremi, sulle difficoltà che stanno affrontando i soccorritori nell’operare in ambienti confinati e ipossici. Sono le stesse ore di apprensione e concitazione nelle informazioni che arrivano, soprattutto circa il salvataggio dei primi 4 ragazzi che vengono evacuati dalla grotta utilizzando tecniche subacquee e speleologiche, come previsto.

Riprendiamo il racconto del Dr. Pasquale Longobardi con le sue parole dal suo post successivo:«Grazie al Centro Iperbarico di Ravenna per aver diffuso la notizia della intervista a La vita in diretta. L’esperienza in Ravenna (dal 1989) come Direttore sanitario ha permesso di acquisire conoscenza ed esperienza nel trattamento dei disturbi post-traumatici da stress (post sindrome da sommersione, trauma sia fisico che psichico). 
L’approccio multidisciplinare include il supporto della psicologia comportamentale con tecnica EMDR (Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari), la correzione dei disordini del sistema nervoso autonomo (percorso Disordini Metabolici Stress Correlati). Qualora la Risonanza Magnetica funzionale evidenzi danni al sistema nervoso centrale, l’ossigenoterapia iperbarica(#OTI), a complemento dei farmaci e della fisioterapia, è somministrata per la correzione dei disturbi neuroendocrini e del danno alla barriera emato-encefalica, alla glia, ai nuclei della base e alla corteccia pre-frontale. 
L’approccio interdisciplinare riesce a superare, con successo, le ansie e i disturbi fisici correlati allo stress subito. 
Orgoglioso di dirigere uno staff fortissimo.

Let’s go Wild Boar! (by SIMSI): 8 ragazzi evacuati!Perché non hanno agito prima? Come mai le pause e non il ritmo continuo? Tante bombole: a cosa servono? Ecco la matematica di un salvataggio di successo in ambiente confinato.
1) situazione: ambiente in classe A di rischio: “immediatamente pericoloso per la vita e la salute”, per % ossigeno inferiore 18%.
2) opzioni di evacuazione (in ordine di priorità):
a) auto-soccorso. Hanno provato, senza successo, a trovare una via aerea di uscita.
b) soccorso dall’esterno: hanno alacremente lavorato per allestire una conduttura di 5 chilometri per insufflare aria compressa (con compressore).
c) entrata di salvataggio. Si è deciso per questa ultima opzione quando il collega dr. Richard Harris di Adelaide, Australia – foto) ha visitato i ragazzi segnalando che diversi soffrivano di disturbi respiratori (fame d’aria) e andavano evacuati subito.
3) per la “entrata di salvataggio” è necessario (ed è stato fatto):
a) avere un piano condiviso
b) preparare i soccorritori (90 persone), sia il team di entrata che – in particolare – i subacquei di emergenza (in caso di problemi), le persone all’esterno per la prima assistenza e trasferimento dei ragazzi.
c) misurare la percentuale dell’ossigeno nell’ambiente (16%).
d) ventilare l’ambiente. In attesa che arrivasse la conduttura per l’aria, hanno utilizzato bombole di ossigeno per ventilare i ragazzi. Utile per migliorare la loro ipossia e come pre-condizionamento al trasferimento subacqueo.
e) addestrare i ragazzi, simulando il passaggio nella strettoia di 38 centimetri
laddove sarebbero necessari almeno 60 x 45 centimetri per un passaggio agevole senza bombole e 90 x 90 con le bombole (foto).
f) utilizzare maschere facciali per la ventilazione in sicurezza (prevenzione della sindrome da sommersione), le comunicazioni.
g) ridurre ragionevolmente al minimo necessario il numero dei soccorritori: gli stessi che hanno recuperato i primi 4 ragazzi, stanno recuperando gli altri.
Le pause di circa 10 ore tra le diverse fasi servono per il debriefing (valutare quanto fatto, adottare misure correttive). Consentire al team di entrata di riposarsi (specialmente psicologicamente), desaturare l’azoto. Ripristinare le bombole di aria e ossigeno.
Le tante bombole servono, quindi, per migliorare le condizioni dei ragazzi e pre-condizionarli al trasferimento subacqueo in sicurezza (ossigeno); rebreather dei soccorritori (ossigeno, aria); bombole lungo il percorso di uscita (aria); presidio di primo soccorso interno alle grotte (ossigeno).
Non si poteva, non si doveva agire in fretta. La matematica per un soccorso di successo richiede i suoi tempi. L’importante è che il conto finale quadri: tredici persone salvate. 
#SIMSItribù dita incrociate.»

Il resto è storia nota: poche ore dopo quest’ultimo post la vicenda avrà il suo epilogo definitivo, tutto sommato estremamente favorevole, se si eccettua la dolorosa perdita dell’eroico soccorritore subacqueo Saman Kunan. Dopo 18 giorni di incubo tutti i “cinghialotti” e il loro allenatore sono sani e salvi, di nuovo tra le braccia dei loro cari. Idem per i moltissimi operatori dei soccorsi.

Si è infine saputo che l’intera vicenda diventerà un film, di cui sarebbero già iniziate le riprese.

Immagina. Puoi!

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“Si può vedere sott’acqua anche quando la vista non c’è più o non c’è mai stata. Si può essere subacquei ed esplorare un fondale marino anche da ciechi. Si può perfino fare turismo subacqueo, malgrado la condizione di non-vedenza…” Parola di ASBI. Che rilancia con una nuova attività

A cura della Redazione. Foto ASBI

Per quest’obiettivo dall’11 al 16 settembre p.v. si svolgerà un corso che darà la possibilità ai subacquei non vedenti di immergersi nei fondali splendidi delle isole Tremiti, presso diving e Riserve Marine, seguendo la didattica “ASBI-Albatros progetto paolo Pinto Scuba Blind International – Cmas”, la metodologia più innovativa per sub non vedenti al momento disponibile. Tale didattica, attraverso un metodo collaudato e efficace, riesce a rendere l’immersione davvero interessante per il non vedente, nonché portatrice di nuove consapevolezze sugli habitat naturali e più approfondite conoscenze sulle specie marine.
Il metodo comprende anche l’ausilio di un riconoscitore subacqueo in Braille (scrittura/lettura del non vedente).

Questo nuovo corso è in pratica la seconda parte di un’attività didattica e divulgativa vinta da ASBI tramite apposito progetto presso il Ministero delle Pari Opportunità: come la prima parte, svolta a Otranto a inizio estate 2018, anche questa è prevista per 5 (cinque) persone, che sono i non vedenti Roberto Rabito di Lugo di Vicenza; Francesca Zepponi di Vicchio – Firenze; Marco Andreoli di Verona; Ornella Punzo di Alessandria; Fortuna Russo di Bologna.

Il corso sarà svolto dal trainer Manrico Volpi, l’ideatore stesso della nuova e collaudata metodologia formativa; da Grazio Menga, Mirco Ferro, Marco Volpi e Alessandra Comin e ha già preventivamente ricevuto l’egida del Comune di Isole Tremiti, della Riserva, di Ente Parco (da sempre particolarmente attento nei confronti della “diversa abilità”) e niente di meno che dalla Camera dei Deputati.

ASBI progetto Paolo Pinto ancora una volta così permette di aprirsi a tutte le realtà che a vario titolo si impegnano nel sociale della disabilità – in particolar modo all’Unione Italiana Ciechi ed ipovedenti – alle quali può oggi offrire l’opportunità di un approccio altamente formativo a quest’attività. Inoltre non potevano mancare i turisti subacquei non vedenti per esplorare i fondali (tanto ambiti dai sub normodotati!) accompagnati dalle guide ASBI già abilitate e provenienti da più parti d’Italia.

Il presidente dell’associazione ASBI progetto Paolo Pinto la dott.ssa Angela Costantino ringrazia anticipatamente lo staff dell’hotel Eden, per la disponibilità offerta, i diving Marlin Tremiti, Aquodiving, l’hotel Kirye per la concessione della piscina, la ditta Neos per la fornitura di mute subacquee e tutti coloro che garantiranno lo svolgimento dell’evento, invitando tutte le realtà turistiche a «fare sistema» intorno alla disabilità, mettendo in atto ogni soluzione che possa rendere più fruibili le loro strutture, valorizzandole così ulteriormente, e in modo da caratterizzare ancor meglio l’offerta del territorio, considerando concreta l’opportunità di aprire il proprio mercato anche ai sub non vedenti: «pur trattandosi di un piccolo mercato – ha concluso Angela Costantino – lo credo comunque importante e sicuramente in crescita».

Sabato 15 settembre alle ore 21:30 lo staff di ASBI aspetta tutti sulla terrazza dell’hotel Eden per la cerimonia della consegna dei brevetti, con proiezione dei filmati subacquei dell’evento e alla presenza delle autorità.

Il corso subacqueo è incentrato dunque sulla preparazione di 5 non vedenti alle immersioni sui fondali delle Isole Tremiti. La metodica didattica impiegata ha una impostazione che cambia l’approccio statico e ghettizzante del “sentiero dedicato ai disabili”, in uno diretto che fa sentire il non vedente non più solo trasportato passivamente sott’acqua, bensì protagonista assoluto della sua immersione. In sintesi il sub non vedente può immergersi insieme agli altri sub ed eseguire le stesse identiche tecniche con cui s’immergono gli altri in qualsiasi luogo, senza doversi limitare ai soli sentieri subacquei attrezzati, ma – al contrario – esplorando e “osservando” con le dita e – con l’ausilio del riconoscitore subacqueo in Braille – gli habitat sommersi e le specie senza con ciò doversi sentire “diverso”.

Una apparente utopia che è già diventata una concreta realtà!

Stealth 2.0 – Sidemount Workshop

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Finalmente ci siamo!!! Per la prima volta in Italia uno dei più esperti istruttori sidemount, Tomasz “Michur” Michura. Il 16 e 17 settembre nell’AMP di Portofino, workshop gratuito organizzato da xDeep Italia.

A cura di Giorgio Anzil

Sei istruttore sidemount ed utilizzi il sistema XDEEP Stealth 2.0?
Non lasciarti scappare questo interessante ed esclusivo evento che si terrà presso DGP Diving Group Portofino nella sede di Rapallo.

Durante l’evento sarà presente anche Piotr Czernik proprietario di Xdeep. Partner tecnico DAN Europe.
Per info sul programma contattare Massimiliano Canossa di Nautica Mare – 0457650168.

Seguici, ti terremo aggiornato.

Giorgio Anzil
giorgioanzil@dfpitalia.it
mobile: 3497402035
skype: giorgio.anzil

Primo contatto

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«Il primo squalo non si scorda mai! E i sedici minuti di decompressione appaiono un giusto prezzo da pagare…» Così Jenny Gioffré all’appuntamento con lo squalo grigio sui terrazzamenti subacquei di Lampione

Di Jenny Gioffré. Foto Giuseppe Mancini e Marina Diving Lampedusa

Il primo bacio, il primo viaggio e adesso aggiungerei – alle prime volte significative – il primo squalo. Ormai non è poi così difficile per un subacqueo confrontarsi con questo sovrano del mare. Io però non appartengo a quella categoria di sub che possono permettersi questo incontro, né per competenze tecniche né soprattutto per risorse economiche necessarie a portarti in luoghi di viaggio deputati a questi faccia a faccia. Il mio primo incontro è avvenuto questa estate, in un viaggio in cui per un insieme di motivi non prevedevo di potermi immergere. Siamo a Lampedusa, è stato l’altruismo del mio compagno a spingermi a fare qualcosa per me. Così vado dal mio amico Beppe Mancini e lui, con affetto e professionalità, mi fornisce l’occorrente e m’invita a tuffarmi a Lampione. Ero già stata in questo splendido luogo d’immersioni ma senza la fortuna dell’incontro con il “sovrano del mare”. La giornata è uggiosa, il mare sfida la nostra tenacia. Un’ora di gommone che solca le onde, un po’ stancante. Il gruppo è simpatico, ma silenzioso. Le sette del mattino d’agosto non è un orario da chiacchiere, il resto lo fanno le alte onde. Lampione è un posto affascinante: un isolotto lungo 200 metri e largo 180, che fa parte della placca continentale africana di pertinenza delle Isole Pelagie. È inoltre un elemento componente dell’Area Marina Protetta delle Isole Pelagie. Scendiamo tutti insieme, incontriamo cernie, ricciole, dentici. Una specie di terrazzamenti subacquei da cui ti sporgi e vedi lo strapiombo abissale. Siamo intorno ai quaranta metri di profondità e poco prima della risalita sento versi strani che provengono da Luca, compagno d’immersione. I suoi occhi trasmettono l’incanto, seguo il suo dito e lo scorgo. Il profilo perfetto, sarà a venti metri da noi, un bellissimo esemplare di “squalo grigio” gira intorno a una cima abbandonata. Un’emozione fortissima, un piacere estetico. Qualche minuto di osservazione e poi lo perdiamo di vista, siamo già in risalita. I sedici minuti di decompressione appaiono un giusto prezzo da pagare. Questo incontro porta forte la consapevolezza che il mare è il suo regno, noi solo ospiti a cui è concesso di dare una sbirciatina, ma poi a casa. Il rientro è più dolce, il sole è tornato a splendere, il maestrale ci dà tregua. Arrivati al molo il mio compagno mi attende al diving. Lo abbraccio e lo ringrazio del regalo, avermi fortemente invogliata ad andare e realizzare così il primo incontro con “Iddu” (lui in siciliano).

Un corso archeosub molto speciale

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Sta per iniziare un’esperienza formativa giunta alla sua 3^ edizione nel campo dell’archeologia subacquea per volontari. Tra cultura, divulgazione e competenze di assoluta qualità. Provare per credere

A cura della Redazione

L’inizio è programmato per venerdì 28 settembre e andrà avanti nei weekend fino a tutto ottobre 2018 (ad esclusione del fine settimana con la concomitanza della Barcolana). Si tratta della edizione numero 3 del Corso di Archeologia Subacquea siglato 3°PAs-FVG (didattica subacquea FIPSAS), rivolto a già subacquei di livello avanzato, con lezioni intensive teorico-pratiche, integrabili con un programma di esercitazioni in acqua, anche in teatri naturali. Insomma, massima qualità divulgativa, anche applicata sul campo. L’attività ha avuto il riconoscimento di tutte le autorità di pertinenza e si svolge sotto l’egida della Soprintendenza all’Archeologia, Belle Arti e paesaggio (MiBACT) per la regione Friuli Venezia Giulia. L’iniziativa infatti si svolgerà nel comprensorio di Trieste, in località comune di Muggia – Le Piastre di Punta Sottile, e sarà curata per intero dalle associazioni CST – Circolo Sommozzatori Trieste, via Mascagni 1/3 di Trieste; CSU – Club Subacqueo Udinese, via Marsala 6/2 di Udine; e CPS – Centro Pordenonese Sommozzatori, in Viale Dante 24 di Pordenone.

«Il corso – scrivono gli organizzatori – è finalizzato a sensibilizzare il mondo delle immersioni subacquee sportive verso la conoscenza, la promozione e il mantenimento del patrimonio archeologico sommerso in Friuli Venezia Giulia». Un proposito che racchiude ed esprime un ideale di futuro rilancio del possibile ruolo dell’operatore volontario nel campo dell’Archeologia delle acque, andato progressivamente in declino fino a qualche anno fa (almeno sul piano dell’attività pratica) allorché le Soprintendenze tesero a preferire le collaborazioni dei corpi sommozzatori delle altre istituzioni statali, anche per ovvie ragioni di reciproca garanzia circa le professionalità in gioco.

Sono infatti sempre gli organizzatori di questo corso molto speciale ad assicurare che «La preparazione conseguita con il brevetto “PAs-FVG” NON consente alcuna autonomia di azione nei siti archeologici, ma con la frequenza a un successivo corso di preparazione alle metodiche specifiche, permetterà l’accesso ai “Gruppi Regionali di Conservazione e primo intervento archeologico” di prossima formazione.» Il che è qualcosa di molto prossimo al concretizzarsi di nuove prospettive per il volontariato subacqueo in questo campo così affascinante dell’Archeologia sommersa.

Gli interessati al corso possono rivolgersi per qualsiasi altra informazione e per l’iscrizione a questi riferimenti: archeo.sub.fvg@gmail.com ; oppure direttamente il coordinatore regionale: visintin.riccardo@gmail.com .

Sullo Junker JU-88 di Nardò

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Immergersi sul relitto d’un aereo da guerra restituisce le immagini di un inabissamento così rapido da evocare un’istantanea degli ultimi convulsi momenti della macchina volante e del suo equipaggio. Qualcosa che rivive in noi al primo sguardo di quella sagoma sul fondo

A cura di Claudio Budrio Butteroni

L’immersione sui relitti viene spesso definita come un viaggio nel tempo. Ogni agito umano viene a cessare nel momento in cui la linea del mare sommerge i nostri manufatti; il nostro tempo si ferma, mentre un altro inizia a scorrere. Questo è tanto più vero quanto sono rapidi i tempi dell’affondamento… come succede agli aerei!
Nelle mie esperienze subacquee, l’esplorazione del relitto di un aereo era una di quelle caselle vuote da riempire. In questo caso la necessità di controllare fino all’ultimo il veicolo per perseguire un ammaraggio quanto più possibile conservativo, e la successiva esigenza di abbandonare celermente il mezzo destinato ad un rapido inabissamento, ci consegnano una vera e propria istantanea degli ultimi attimi di vita vissuta. 

Così, colta l’occasione di una vacanza in Salento, prendo contatti con il Diving Costa del Sud di Andrea Costantini. Il relitto dello Junker JU88 di Nardò è meta nota e la frazione a mare di Santa Caterina è un posto piacevolissimo per trascorrere qualche giorno.
Il diving Costa del Sud è situato proprio sul lungomare di Santa Caterina a pochi passi dalla piazzetta pedonale. Offre qualsiasi tipo di supporto ed è dotato di una moderna stazione di ricarica per qualunque tipo di miscela. Mi accoglie Angelica che mi fornisce gentilmente supporto logistico per le mie esigenze subacquee, oltre a quello turistico per agevolare e rendere quanto più piacevole la nostra permanenza.
Fissiamo per la mattina successiva un appuntamento “comodo” al diving, che io anticipo di una mezz’ora per avere il tempo di montare con calma il mio rebreather JJ. L’immersione su questo relitto non è particolarmente complessa ma da quando sono passato al mondo “bubble-less” utilizzo il circuito chiuso per quasi ogni tipo di esperienza subacquea.

Il relitto si trova adagiato su un fondale sabbioso di circa 40 metri.
Si tratterà di un’immersione quadra, ed i tempi di permanenza – data la eterogeneità del gruppo – saranno relativamente contenuti.
Imbarcate le attrezzature sul gommone, una manciata di minuti di navigazione ci separano dal punto di immersione. L’ancoraggio viene volutamente effettuato a debita distanza dal relitto per preservarne la struttura, ed appena spenti i motori mi tuffo per primo sperando di poter così grattare qualche minuto in più di immersione. Giunto a pochi metri dal fondo mi assale la depressione… l’ancora è lì, ma del relitto neanche l’ombra.
Poi, come spesso accade, basta crederci.
Bastano cioè due pinneggiate e qualcosa si inizia ad intravedere.
Metto le mani “a paletta” ai lati della maschera per schermare i raggi del sole che potenti riflettono sulle lenti, e una sagoma mi appare.
Sulla storia di questo relitto molto è stato scritto, ma si tratta per lo più di ipotesi e supposizioni. I racconti degli anziani riferiscono di un grosso aereo caduto in mare, di un corpo in divisa rinvenuto ad alcuni giorni di distanza spiaggiato nella vicina frazione di Santa Maria al Bagno e poco altro. Solo un paziente lavoro di ricerca ed esplorazione di Andrea Costantini ha reso possibile l’individuazione ed il ritrovamento dell’apparecchio.

Si tratta di uno Junker tedesco, un aeroplano estremamente versatile e realizzato durante la seconda guerra mondiale in diverse versioni. Normalmente poteva contare su un equipaggio di tre persone: un pilota, un mitragliere di prua disteso sulla plancia e un mitragliere di poppa seduto di spalle dietro al pilota.

Quello abbattuto a Nardò di suppone possa aver partecipato al bombardamento di Taranto, avvenuto nella notte tra l’11 ed il 12 novembre 1940.
Appare sostanzialmente integro, con le ali ancora al loro posto sollevate dal fondo. La cabina di pilotaggio è priva del cupolino, evidentemente distrutto o sganciato dal pilota in fase di ammaraggio. Sorprende l’antenna radio ancora al suo posto.
All’interno nessun resto umano fu rinvenuto e questo fece ritenere che tutto l’equipaggio fosse riuscito ad abbandonare il velivolo. Le strumentazioni di bordo appaiono ancora ben visibili anche se colonizzate dagli organismi del mare.

Percorso il velivolo per la sua lunghezza si giunge in prossimità del carrello posteriore, che però risulta troncato. A distanza di pochi metri giace il timone di coda su cui si riesce ancora ad intravedere la croce uncinata del Terzo Reich.
Tornando sui miei passi mi dedico poi all’esplorazione delle ali. I flap sono aperti in posizione di atterraggio ed i due grossi motori sono ancora al loro posto, tuttavia privi delle eliche in quanto probabilmente danneggiate e perse proprio in fase di ammaraggio.
Ovunque si posi lo sguardo a distanza ravvicinata è tutta un’esplosione di colori, con nuvole di castagnole che ingombrano la vista (anche se le foto in bianco/nero, come avviene un po’ per tutti i tipi di relitti, rappresentano un grande classico, irresistibile nella documentazione per immagini di queste sagome così affascinanti addormentate sul fondo…).
Purtroppo il tempo di fondo raccomandato dal nostro accompagnatore si assottiglia e non mi rimane che iniziare una lenta risalita verso la superficie. Mi resta giusto il tempo di voltarmi ancora un istante per qualche ultimo scatto e per godere di una visione d’insieme che porterò con me per diverso tempo ancora.


FOTOSUB FIPSAS ALL’ARGENTARIO

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Conclusi i Campionati Italiani di Fotografia Subacquea Fipsas categoria individuale Reflex e per Società

A cura di Mario Genovesi

Il titolo di Campione d’Italia per Società se lo è aggiudicato l’Associazione Mediterraneo di Cosenza con gli atleti-fotografi Francesco Sesso e Virginia Salzedo, modella Alessandra Pagliaro. Al secondo posto il Club Sub Città di Lucca con Andrea Carlesi e Guglielmo Cicerchia, modella Katia Bagnara. Conclude il podio, al terzo posto, il Centro Sub Nuoto 2000 di Faenza con Fabio Iardino e Marco Bollettinari, modella Chiara Scrigner.
Nel Campionato individuale Reflex il titolo è andato a Guglielmo Cicerchia affiancato dalla modella Iwona Molsa, secondo Francesco Sesso, modella Alessandra Pagliaro e al terzo posto Primo Cardini.
Ottima la produzione fotografica prodotta, merito sia di una qualità tecnica e artistica di alto livello, sia degli splendidi fondali dell’Argentario. Come impeccabile è stata l’organizzazione dell’evento affidato alla Associazione Sportiva GB Sub di Firenze e della parte riguardante le immersioni gestita dal Diving Costa d’Argento.
La premiazione si è svolta a Porto Santo Stefano nella sala Ex Omni, gentilmente concessa dal comune che ha anche patrocinato la manifestazione, alla presenza del presidente del Settore Attività Subacquee e Nuoto Pinnato, Carlo Allegrini e del Componente il Comitato di Settore Mario Genovesi.
Numerosi i premi offerti da gli sponsor, a partire da Isotta, sponsor tecnico della manifestazione presente alla gara anche come assistenza tecnica, Press Tours, DNA, Fotosub Shop, Aqualung, Atlantis Diving Centre Gozo, Foto Shark, Scubapro, Fattoria Pieve a Salti, Diving in Elba, Centro Immersioni Costa d’Argento, Moresi Edilimmobili, Tecno Service, Argentario Osa Village.

L’Anima Acquatica

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«Toh, una sirena! Che ci fa in queste immagini, messa in posa, addomesticata? Queste immagini rendono reale e possibile una figura mitologica, quella che ogni uomo vorrebbe incontrare…». Riflessioni d’autore sulle foto di Simone Pollastrini

A cura di Jenny Gioffré. Foto Simone Pollastrini

La scelta della figura femminile come perno di queste foto è sì una scelta estetica ma affonda le sue radici più in profondità. L’acqua da sempre è legata all’archetipo del femminile, e le immagini hanno una via privilegiata di accesso agli archetipi umani. Il movimento, i colori e i dettagli di queste immagini rimandano a una dimensione mitologica: non è una modella bensì una trasposizione antropologica dell’immaginario dello spirito dell’acqua stessa. Risuona del mito delle Sirene, ma anche di Medusa, di Ondina, di Mamywater e tanti altri.
Una donna si specchia nell’Infinito, la domanda potrebbe essere: “è immersa nell’acqua o nell’Universo?” Il filosofo Gaston Bachelard afferma che “l’infinito nei nostri sogni è ugualmente profondo nel firmamento e sotto le acque”. In questa foto le bolle sono le stelle, il riflesso siamo noi nell’infinito. I colori alchemici qui racchiusi suggeriscono un processo di trasformazione e creazione di se stessi, in effetti siamo figlie e figli dell’acqua. L’acqua è l’elemento “femminile” per eccellenza: accoglie, protegge e nutre ancora prima della nascita.
Alla fotografia vanno riconosciute altissime potenzialità per ricondurre la sua vocazione originaria di dispositivo del pensiero, dell’immaginazione e della memoria, come afferma Anna D’Elia. Ci fornisce un inesauribile viaggio nel mondo della visione e dell’incanto, tra paesaggi veri e fantastici. La potenzialità della fotografia esige, da parte del fotografo e dello spettatore, la costruzione di uno sguardo capace di condurlo all’interno dell’immagine in maniera attiva, sollecitandogli emozioni che lui stesso potrà tradurre in storie. Il nodo sta nello sguardo. Le immagini collegano visibile e invisibile, storia personale e collettiva, pensiero razionale e memoria inconscia. Occorre entrare in contatto con lo stupore.
E che dire di queste Sirene divenute reali? Reali nel senso che potrebbero esistere sul serio, ma anche reali nel senso di regali. Regina di se stessa, innamorata di se stessa, potremmo considerare questa sirena l’emblema della cultura individualista di oggi rappresentata con un gusto estetico molto attento. E l’altra sirena, con la testa fuori dall’acqua, con chi starà parlando? Cosa starà guardando? È in contatto con l’umano mondo? Appena l’ho vista mi ha ricordato la storia di Tomasi da Lampedusa, nella mia immaginazione essa è Lighea. È questa, a mio parere, la forza delle foto di Simone Pollastrini: riesce a rendere percepibile e vivido un immaginario di grande potenza. Ogni foto è l’incipit di una storia, sono figure sempre vive che racchiudono in sé un passato e un futuro. Sono immagini che parlano alla nostra possibilità di stupirci ancora e sognare, un’immagine che apre alla potenzialità e all’infinito.

Record, ok. Ma la sicurezza?

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Un punto di vista globale sul grave incidente di black-out occorso a un atleta spagnolo durante gli ultimi mondiali di apnea outdoor in Turchia

Intervista di Romano Barluzzi a Leonardo D’Imporzano

Avevamo trovato, in chiosa al grave episodio sincopale (un cosiddetto “black-out”) in cui è incappato l’atleta spagnolo Ramón Carreño Paz in risalita a ben 35 m di profondità il 2 ottobre scorso durante i mondiali di apnea outdoor di Kas in Turchia, un commento più che pungente pubblicato da Leonardo D’Imporzano sul proprio blog e la cosa ci ha spinto a consultarlo di persona.
Se infatti si può applicare al caso il noto detto “tutto è bene quel che finisce bene” – lo spagnolo è stato recuperato in tempo e dopo un po’ d’ospedale gode nuovamente buona salute – è altrettanto vero che le modalità in cui s’è verificato l’incidente appaiono francamente inquietanti, non tanto per l’impressionante video diffuso proprio dalla CMAS (potete riguardarlo anche qui: https://www.youtube.com/watch?v=wIS0QMNWfTw ), quanto per la possibilità stessa che si sia verificato in quel modo.
Insomma, qualcosa che “non sarebbe dovuta succedere affatto”, invece è successa eccome!
Esiste in tutto ciò un qualche significato di cui parlare costruttivamente, prima che i soliti “benpensanti del settore” tirino in ballo la cara e consueta apparente “fatalità”? Se si, vediamolo: potrebbe servire a scopo preventivo e/o migliorativo, affinché un evento del genere non abbia a ripetersi mai più o, anche nella malaugurata ipotesi, possa essere affrontato e gestito con efficacia ancor maggiore.

Leonardo, all’indomani del brutto episodio hai avuto parole di fuoco per tutti sul tuo blog: non le hai mandate a dire, né agli atleti, né agli operatori addetti, né agli organizzatori, né alla CMAS. Come mai? Che idea ti sei fatto, in estrema sintesi?

«Che la sicurezza, in quasi tutti i suoi presupposti, lasciasse ancora troppo a desiderare. Che questo sia un problema e un limite che affligge ancora troppo diffusamente la moderna apnea verticale. E che anche ciò che comunque ha funzionato – e meno male! – vada comunque migliorato.»

Siamo ora più analitici: cominciamo dagli atleti…
«Vedi, il fatto stesso che sia accaduto un incidente del genere, a quella profondità… qualcosa che non sarebbe dovuto accadere affatto, o non in quel modo, rilascia quell’amaro in bocca del sospetto che molto probabilmente ci fosse all’origine un deficit di preparazione psicofisica o anche problemi fisici sottovalutati.»

Parli del singolo caso specifico dello spagnolo? Una giornata “no” può capitare, non siamo macchine…
«Appunto per questo l’episodio a mio parere rende evidente che il fatto che alcuni atleti affrontino profondità limite con eccessiva leggerezza è con ogni probabilità più diffuso di quel che si creda. Magari compensano al volo perché son dotati, sia fisicamente in via naturale (più probabile!) sia come tecnica compensatoria appresa. Del resto non si fa che un gran parlare di “hands free”, “mouth fill” ecc. Ma l’impressione è che proprio azzerando questo ostacolo naturale alla profondità si creda di potersi curare di meno – che so – della tecnica di pinneggiamento, o della gestione globale del tuffo, o degli aspetti psichici necessari per conoscersi meglio, per percepire il proprio stato interiore e le sue variazioni…»

E del ruolo dell’allenatore?
«L’allenatore è uno che dovrebbe saper far gestire la prestazione del suo atleta in modo che non possa capitargli una cosa di questo genere! Per esempio, facendogli padroneggiare la stima della quota dichiarata in modo che non superi mai quella della propria migliore prestazione personale. E anche su questo concetto di “migliore prestazione personale” ce n’è da dire: dovrebbe infatti essere quella che l’atleta viene messo in grado di gestire sempre nell’ambito delle proprie capacità consolidate, non con un mix di abilità e di fattori fortuiti, magari legati alle variabili del momento…»

Veniamo agli organizzatori…
«Beh guarda, molte cose ce le dice già la ripresa video (originariamente integrale, dopodiché sono circolate versioni tagliate…), così saltano all’occhio di colpo: per dirne una soltanto, un “safety” è dovuto risalire precipitosamente per esaurimento della sua autonomia in apnea. È stata evidente una errata valutazione dei tempi nel suo tuffo rispetto allo spagnolo in risalita … e bisogna vedere poi come mai!
Se l’atleta dichiara un tempo “tot” per il tuffo e dalla superficie si accorgono che è molto più lento, la macchina della sicurezza deve attivarsi prontamente, poiché vuol dire che qualcosa sta andando storto.
Per dirne altre di carattere organizzativo: i soccorritori “sanitari” presenti avranno anche gestito efficacemente – i risultati parlano – l’incidente nel loro trattamento sull’infortunato, ma non erano neanche riconoscibili né individuabili visivamente. Inoltre, non mi risulta che ci fosse alcun medico specialista in rianimazione. Spero almeno su questo di essere smentito.»

Ritieni che l’episodio abbia potuto danneggiare l’immagine dell’Apnea a livello mondiale, nel momento in cui si auspica possa diventare disciplina olimpica?
«In effetti negli ultimi mesi si è parlato molto di portare l’apnea alle Olimpiadi estive e il palcoscenico dei giochi mondiali CMAS svolto in Turchia nei giorni scorsi aveva dato l’impressione di voler essere la vetrina internazionale in cui tutto il relativo “circo” connesso (atleti, allenatori, giudici, dirigenti, organizzatori ecc) potesse mostrarsi prestigioso… invece ha rivelato piuttosto che la strada da fare è ancora molta!»

Beh, ma la partecipazione alle Olimpiadi non riguarderebbe soltanto le specialità dell’apnea orizzontale in vasca?
«Si ma dal punto di vista dell’immagine il problema sussiste ugualmente: chi si metterebbe a fare questa distinzione tra il grande pubblico? Il messaggio restituito dall’Apnea a causa di questo episodio è che si tratta ancora di uno sport “pericoloso” e in cui i rischi sono difficilmente evitabili o mal gestibili…anche se così non è!»

D’altronde non c’è la possibilità di azzerare completamente il rischio, in nessuna umana attività…
«Infatti il punto non è questo. L’obiettivo non è – o non dovrebbe essere – quello di annullare del tutto un rischio in realtà ineliminabile per definizione, bensì rendere la gestione del soccorso, oltre che migliore, destinata a gestire l’eccezione, l’emergenza autentica, il caso disgraziato, l’imponderabile vero. Mentre qua pare quasi che le si voglia deputare il compito di sopperire all’incapacità di evitarla da parte di alcuni, forse troppi. Per la serie “io mi butto, tanto se va male poi c’è chi mi recupera e mi salva!” Ecco, la mia impressione è che si debba affrancarsi del tutto da questa tentazione, che credo sia ancora troppo una diffusa mentalità emergente sotto la spinta agonistica della gara.»

Un nostro grande personaggio dell’assistenza professionale agli apneisti, Michele Geraci, presente all’accaduto, ha commentato su un proprio post che (almeno) il soccorso è stato ineccepibile e che la CMAS saprà fare piena luce sui motivi dell’accaduto. La stessa presidente della CMAS Ana Arzhanova ha assicurato: “Le nostre procedure sono sempre in evoluzione con la sicurezza in mente. Considereremo questo incidente un’opportunità per continuare a imparare e migliorare le nostre misure di sicurezza sia per i partecipanti a questo evento sia per il futuro a lungo termine dello sport in generale”. Sembra insomma esserci una volontà comune di miglioramento tempestivo… che ne dici?
«Penso che Michele sia stato fin troppo diplomatico. Gli errori sono stati tanti, a monte, e solo un pizzico di fortuna ha permesso che non si trasformasse in tragedia quanto avvenuto.
Michele è un grande professionista e penso che, visto che fa parte della CMAS, la sua esperienza venga tenuta da conto in quell’ambiente, così che possa dare loro dei buoni consigli. E ci sono anche altri italiani, come Gaspare Battaglia che ha fatto un recupero importante come Safety ad Ischia l’anno scorso. Che facciano una commissione seria di valutazione, magari anche con personalità al di fuori della CMAS, perché AIDA non è da meno. Gli incidenti sono presenti anche nel circuito “pro” e gli atleti competono tanto nell’uno che nell’altro. Anche i nostri, dove l’Alessia nazionale ha finalmente azzerato le differenze di prestazioni record nei due circuiti.»

Per inciso… i nostri atleti non potevano, sino a qualche anno fa, partecipare alle gare AIDA, giusto?
«Esatto. Mentre oggi si. È stata una lunga mediazione, durante il periodo nel quale ho guidato AIDA Italia, ho lavorato con Azzali (allora presidente del settore attività subacquee della FIPSAS – ndr) per trovare una soluzione accettabile che finalmente poi è arrivata.»

Nonostante la sospensione forzata per l’incidente allo spagnolo, i mondiali sono poi proseguiti, coronati da un fantastico successo della nostra squadra…
«Si, un grande risultato complessivo, che ci proietta ai vertici, secondi solo ai russi…onore al merito per tutti i componenti della rappresentanza del nostro Paese. Le medaglie vinte dagli azzurri in occasione del 3° Campionato Mondiale CMAS di Apnea Outdoor hanno raggiunto quota sei: tre d’oro, una d’argento e due di bronzo. Per di più senza inconvenienti! Costituiscono quindi un’affermazione che parla da sola e sa di maturità e universalità.»

ASBI SOPRATTUTTO

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Il bilancio delle attività legate all’ultimo progetto è la conferma dell’ennesimo podio per l’associazione e didattica subacquea che più s’è spesa nel diffondere l’immersione per non vedenti. Da ormai 14 anni in qua, un enorme bagaglio d’esperienza reale mai soltanto simulata. Come testimoniano i protagonisti. Mentre si profila già il prossimo progetto

di Romano Barluzzi. Foto ASBI

Un progetto, una realtà. L’equivalente del proverbiale: “Detto, fatto!” Mesi or sono l’associazione “ASBI Albatros-progetto Paolo Pinto-Scuba Blind International” aveva presentato un progetto. L’ha poi vinto. L’ha quindi avviato e svolto. Fino a portarlo recentemente a compimento, coronato da un largo successo “di pubblico e di critica”, come si suol dire a proposito del cinema ben riuscito. Il progetto prese il nome di “A…mare il Mare”.

La parola “Fine” vera e propria sarà in realtà costituita da una chiusura in bellezza sotto forma di un dettagliato resoconto pubblico che avrà il suo spazio e il suo momento in occasione del prossimo EudiShow 2019. Ma sia ad ASBI sia a noi piace anticiparvene intanto i tratti essenziali anche attraverso queste righe.

E dunque, grazie al contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le pari opportunità, nonché con il patrocinio della Camera dei Deputati, oggi ci sono già 10 (dieci!) nuovi sub non vedenti che si sono brevettati con la didattica ASBI/CMAS!

Con un primo gruppo a Otranto nel mese di giugno e un secondo a settembre alle Isole Tremiti, questi dieci subacquei “blind” in totale oggi possono immergersi per svolgere perfino un vero e proprio turismo naturalistico subacqueo, insieme a – e al pari di – qualsiasi subacqueo vedente, che è quanto di meglio si prefiggeva di ottenere l’obiettivo progettuale di Albatros.

Eccoli, ve li presentiamo (in ordine sparso), chiamandoli familiarmente per il solo nome, come si usa tra subacquei: Massimiliano, Gabriele, Maria, Sandro, Stefano, Marco, Fortuna, Roberto, Francesca, Ornella. Provengono da Napoli, Roma, Verona, Firenze, nonché dalla Puglia, regione d’origine dell’associazione.

È diventato possibile parlare di autentico turismo subacqueo in quanto l’attività di ASBI, svolta da sempre in stretta collaborazione con diving center delle zone in cui sono stati organizzati via via corsi e iniziative sia per allievi che di specializzazione per istruttori e guide, ha permesso di creare una sorta di rete di diving in cui collaborano operatori qualificati da ASBI nell’accompagnamento dei sub non vedenti, che pertanto possono trovare in queste strutture – ormai sparse un po’ ovunque in tutte le principali zone costiere del nostro Paese – la giusta professionalità per vivere le magie dell’immersione turistico-naturalistica alla propria portata.

Anche nelle circostanze di entrambe i suddetti, Otranto e Tremiti, come quasi sempre avviene nelle attività formative organizzate da ASBI, si sono aggregati pure alcuni dei sub non vedenti che da più vecchia data seguono le attività dell’associazione, risultandone veri e propri animatori, sia essi stessi sotto il profilo turistico-ricreativo sia come consulenti della didattica: ecco perché riesce sempre a risultarne una metodologia formativa basata sulla reale esperienza nel campo, cui sono maggiormente ispirate anche le pur necessarie simulazioni; un valore aggiunto di enorme importanza che difficilmente può essere vantato da altri.

Ma le attività di ASBI non si fermano a quanto detto fin qui: a fine ottobre – praticamente nei giorni successivi all’uscita di questo nostro articolo – tutti al via per un’altra trasferta di turismo subacqueo, stavolta a Castellammare, ancora una volta già pronti ad attraversare le porte spalancate del mondo sommerso per entrare nell’acquario della Creazione, dove le emozioni che solo la natura sa dare abbattono la barriera delle differenze di qualsiasi disabilità.

Il prossimo progetto: invito al sostegno!
Prima di passare alla diretta testimonianza di tre degli ultimi subacquei non vedenti formatisi in associazione, vogliamo anticipare il prossimo progetto di casa ASBI. Che si profila interessante non soltanto per l’ulteriore rilancio delle finalità formative suaccennate ma anche per la formula utilizzabile da chi intendesse sostenerlo.
L’associazione ASBI Albatros-progetto Paolo Pinto-Scuba Blind International è protagonista infatti nel progetto “Guide in un mare FluttuOSO” – dove OSO sta per Ogni Sport Oltre, iniziativa Vodafone. Avendo ASBI ottenuto una valutazione positiva, Fondazione Vodafone propone un finanziamento in matching fund (50%/50%) a seguito di una campagna di raccolta fondi attraverso il crowdfunding di OSO. Il progetto sarà lanciato sulla piattaforma crowdfunding di OSO per il raggiungimento del target nel corso della campagna che dura 40 giorni.
La raccolta fondi per raggiungere il target potrà avvenire mediante donazioni volontarie:
–          Via carta di credito su piattaforma OSO
–          Mediante bonifico bancario
–          Eventi di live crowdfunding con raccolta fondi in loco
La data target per l’avvio delle campagne è il 12 novembre 2018.
Il progetto prevede la formazione di 10 (dieci) istruttori subacquei per disabili specializzati per non vedenti con la didattica ASBI/CMAS; stavolta si mira cioè a formare, specializzandoli, operatori che siano già istruttori, aiuto-istruttori, accompagnatori o guide di qualsiasi organizzazione didattica per subacquei normodotati e intendessero migliorare in modo cospicuo la propria professionalità grazie all’abilitazione all’accompagnamento in immersione di subacquei privi della vista e/o ipovedenti.

E ora la parola a tre testimonianze di spessore: leggetele fino in fondo… non ve ne pentirete!
Fortuna Russo «Sono non vedente dalla nascita perché affetta da una patologia genetica e degenerativa, la Retinite pigmentosa. La mia scelta di partecipare al corso è stata dettata da una forte passione per il mare e i segreti che custodisce. Il mare è l’unico luogo in cui mi sento davvero libera, ed in questo caso mi sono sentita libera anche di esplorare ciò che c’è 18 metri sotto la superficie. La mia grande conquista è stata soprattutto superare la paura – anzi, il panico – che mi affliggevano nel momento in cui m’immergevo. Ho superato un’altra barriera!… Non mento nel sostenere che è stata una tra le esperienze più belle e significative della mia vita.»

Gabriele Palma «Ho 28 anni, ipovedente salentino, affascinato da sempre dal mondo della subacquea, ma allo stesso tempo impaurito. Perché avendo una disabilità visiva, avevo paura al sol pensiero di immergermi, dato che il mio campo visivo già limitato sott’acqua si restringe tantissimo, quasi a non farmi vedere più nulla.
Con il progetto “A..mare il Mare” , dell’associazione Albatros Progetto Paolo Pinto, in collaborazione con il Ministero delle Pari opportunità, ho avuto la possibilità di partecipare ad un corso di sub per ipovedenti non vedenti, nella splendida Otranto.
Che dire… Un corso veramente organizzato nei minimi dettagli, con tutti gli istruttori Albatros, già dai primi minuti di corso mi sentivo a mio agio, mi sono fidato di loro sin da subito.
Grazie a questo corso sono riuscito a realizzare il mio sogno, di immergermi sott’acqua senza avere più nessun timore, ora per me non è più un limite, non riesco a vedere la mia vita senza la subacquea. Infatti, dopo aver ricevuto il brevetto, ho già fatto turismo subacqueo alle Isole Tremiti a settembre, e ora mi aspetta un’altra bellissima esperienza a Castellammare di Stabia a fine ottobre.
Consiglierei a tutti gli ipovedenti e non vedenti di fare il corso di sub con l’associazione Albatros progetto Paolo Pinto, la serietà e la professionalità con cui vengono svolti i corsi la contraddistinguono.»

Roberto Rabito«Ho saputo del corso quasi per caso girando in internet, così ho provato a mandare la domanda, era da tempo che volevo fare un corso sub. Era un progetto che dovevo realizzare con mio padre ma purtroppo non c’è stato il tempo per farlo… Ho sempre avuto molta passione per il mare e per l’acqua e ho fatto sempre snorkeling. Ho preferito l’opzione per le isole Tremiti perché ho una passione per le isole, mi piace quando sono a mare trovarmi isolato, immerso completamente nella natura. Avevo aspettative un po’ contrastanti …mi sentivo un po’ timoroso, in apprensione, ma al contempo attratto. La paura perché è vero che il mare mi piace molto ma credo si debba anche rispettarne la natura; e poi anche perché bisognava arrivare fin lì, partire da casa mi pareva già un’impresa. Dopo invece è stato anche quello il bello: di essermi sentito disposto a mettermi un po’ in gioco. Dovevo organizzare il viaggio per arrivare, conoscere queste nuove persone, questi nuovi compagni del corso, gli istruttori e l’associazione Albatros.
Diciamo innanzitutto che gli istruttori e il trainer sono molto preparati, molto professionali ed anche molto cordiali. Trasmettono alle persone la giusta sicurezza, la tranquillità idonea per affrontare questo nuovo ambiente subacqueo, questo “altro mondo” diverso da quello che c’è sopra. Così mi aspettavo che, andando sotto, avrei provato delle forti emozioni. Però …non pensavo fosse così bello, né che quelle emozioni sarebbero state forti così tanto. Sono stato contento e mi son sentito soddisfatto appieno. Un po’ perché ho trovato dei nuovi amici tra i compagni del corso; ma anche da quelli che lo avevano già fatto m’ha avvolto un bel clima conviviale, gioviale, in particolare da quelli del turismo subacqueo. Sono talmente contento che, dopo un mese circa dal corso delle isole Tremiti, a fine ottobre tornerò a immergermi a Castellamare di Stabia. Ho troppa voglia di tornare sotto. Stare sott’acqua è bellissimo: ti sembra quasi di volare, e sei accompagnato, ma come se conducessi tu. Scendere con l’istruttore è come girare con il cane guida sott’acqua, lui diventa parte della tua autonomia. Per spiegarti meglio, dato che ho un cane guida: quando giro da solo in strada giro con quello, il cane guida; quando sono sott’acqua scendo con l’istruttore! Spero che non si arrabbiano perché l’ho definiti come i cani guida ma per me Tiffany – è il nome del mio cane guida – è qualcosa di fondamentale. Quindi, se accettano questo paragone, sanno che anche loro sono fondamentali per noi quando siamo sott’acqua. Il bello è che poi si tocca tutto … certo, quel che si può toccare, che ti fanno toccare, sempre con le dovute precauzioni, quindi la conoscenza che si ha dell’ambiente subacqueo è molto accurata. C’è poi il riconoscitore subacqueo in Braille con cui ti spiegano cosa stai toccando, cosa stai guardando, il colore ecc… Con gli istruttori si fa sempre un briefing prima di andare sotto e quando si ritorna in superficie, se c’è qualche dubbio, basta chiedere …la professionalità è sempre veramente al top. Ringrazio Angela (Angela Costantino Pinto, presidente di ASBI – ndr), perché con la sua associazione – adesso anche un po’ mia, dal momento che son socio – ci fa provare queste forti emozioni e ci rimette anche un po’ in gioco, perché affrontare queste esperienze ti fa acquisire più fiducia in te stesso, sulle tue capacità, più consapevolezza su quali sono i tuoi limiti e su dove puoi arrivare, mette in luce anche in te stesso impegno e volontà. Insomma 10 e lode!»

Tesori da scoprire

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Parliamo di quelli in alto Adriatico, in particolare dove non si penserebbe mai di trovare motivi d’interesse, come nel golfo di Trieste. Invece chi non ci fosse stato dovrebbe provare: resterebbe stupefatto dalle sorprese. Fino a innamorarsi di questo mare davvero speciale

La Redazione. Foto: Chiara Scrigner, Marco Fantin

«Quando vado in giro per l’Italia capita spesso che mi chiedano dove m’immergo di solito e alla mia risposta “nel Golfo di Trieste” quasi sempre gli altri divers spalancano gli occhi e ti guardano come per dire: “ma questo è tutto matto”…» Esordisce così Andrea Sauro, titolare del centro d’immersioni Sistiana Diving (sulla baia di Sistiana, comune di Duino-Aurisina, alle porte di Trieste), istruttore subacqueo che conosce questi fondali come le sue tasche, alla nostra richiesta di descriverci “perché uno dovrebbe volersi immergere proprio qui?”. Poi il suo racconto prosegue, supportato più avanti da altre autorevoli voci.

«Subito dopo il primo stupore, come dicevo, i più educati si limitano a domande del tipo: “ma davvero si possono fare immersioni nel Golfo di Trieste?” Ebbene sì! Si possono fare eccome: e sono veramente belle, soprattutto ricche di emozioni e di soprese.

Ma andiamo con ordine perché in realtà queste caratteristiche sono proprie un po’ di tutto l’alto Adriatico, specie mantenendosi proprio nel versante italiano.

Da Chioggia a Grado, passando per Jesolo e Caorle, l’Alto Adriatico è disseminato di Tegnue o Trezze. Si tratta di affioramenti rocciosi organogeni carbonatici che emergono dai sedimenti nord adriatici tra i 10 e i 40 m di profondità. Tali formazioni (cui abbiamo dedicato un precedente articolo – ndr), che interrompono la monotonia del fondo sabbioso, sono note fin dal 1700 e il loro nome Tegnue o Tenute deriva dal fatto di tenere/strappare le reti dei pescatori.

Sulla loro origine non si hanno certezze: probabilmente la fuoriuscita di metano dal sedimento favorisce la precipitazione del carbonato disciolto nell’acqua. Appena si forma un substrato coerente questo viene colonizzato da vari organismi (bivalvi, madrepore, spugne) i cui scheletri contribuiscono alla crescita della struttura che può raggiungere diversi metri di altezza.

Ma quello che rende uniche queste aree è l’incredibile biodiversità che raggiunge il doppio di quella del Mar Rosso, inoltre la presenza di una così abbondante vita bentonica genera un’altrettanta esplosione di vita pelagica.

Né va dimenticato che questo tratto di mare, essendo stato fin dal tempo degli antichi Romani un crocevia di innumerevoli vicende storiche, è stato solcato da navi di ogni genere, sia militari sia civili, da pescherecci a grandi bastimenti da crociera, ed è stato teatro di naufragi e di tragici eventi bellici. Non mancano quindi i relitti d’ogni genere, per gli appassionati di questo campo.

Per tutte queste ragioni, come preaccennato, di immersioni da poter fare in questa zona ce ne sono davvero per tutti i gusti.

Generalmente gli amanti dei relitti si concentrano nella zona del golfo di Venezia (dall’Eudokia al famoso cacciatorpediniere Quintino Sella agli storici PN4 e PN5) ma non per questo trascurano di immergersi sul B24 Liberator di Grado o di visitare il piccolo ed enigmatico Molch… se si pensa che lì dentro doveva starci un uomo… beh, la cosa fa parecchio impressione!

Però, relitti a parte, come suaccennato la caratteristica principale delle immersioni in Alto Adriatico e specialmente nel Golfo di Trieste è l’incredibile biodiversità che permette di vedere concentrate in piccole aree un gran numero di specie altrove difficilmente reperibili. Questa abbondanza richiama un gran numero di subacquei naturalistici… ma non solo. Infatti da diversi anni ormai opera qui un nutrito gruppo di fotosub che ha permesso di documentare decine e decine di specie e che ha prodotto immagini che hanno ottenuto numerosi riconoscimenti internazionali, contribuendo a richiamare l’attenzione su queste aree.

Volendo riportare il discorso su Trieste, innanzi tutto bisogna ricordare che durante la stagione non balneare le immersioni si possono fare in molti punti della costa triestina – non a caso la nostra stagione preferita praticamente comincia adesso – mentre con l’arrivo del periodo estivo i principali siti di immersione sono comunque cinque, praticabili dopo l’orario balneare e tutti raggiungibili da terra:

Comune di Duino – Loc. Sistiana (Parco Caravella): si tratta del classico sito di immersioni famoso per esser stato la base segreta tedesca dei sommergibili monoposto Molch durante la II Guerra Mondiale. L’area è caratterizzata da un fondale roccioso fino ai 7-8 m di profondità che poi degrada dolcemente in una piana sabbioso-fangosa ove spuntano come monoliti numerose Pinne nobilis. Il sito confina con il Parco Naturale delle Falesie di Duino;

Comune di Duino – Spiaggia Castelreggio: questo sito è tipico per la presenza di un esemplare ancora intero di sommergibile tascabile Molch che giace a una profondità di 8-9 m. Dopo una breve discesa creata dal riporto della spiaggia ghiaiosa, si scende su una piana fangosa ricca di Pinna nobilis e di aree con piccole strutture biocostruite;

Comune di Trieste – Loc. Grignano: il sito confina con l’AMP di Miramare! Anche in questo caso la profondità non supera i 9 m e il fondo è generalmente sabbioso con parecchi scogli molto ricchi di vita.

Comune di Trieste – Loc. Barcola: si tratta del sito chiamato “Topolini” per la forma delle piazzole in cemento che ricordano il famoso roditore dei fumetti. La profondità è veramente ridotta dal momento che si raggiungono i 5-6 m con fondo roccioso e con grandi scogli che emergono durante la bassa marea

Comune di Muggia – Loc. Punta Sottile: siamo quasi al confine con la Slovenia. Si parte dalle spiaggette per esplorare l’area andando sia verso Trieste che verso la Slovenia. Il fondo è sabbioso e le Pinne nobilis creano vere e proprie “foreste” da quanto sono numerose, dividendosi lo spazio con Spirografi e Cerianthi. La profondità varia dai 4 m fino ai 20 m…»

A questo punto è il biologo Marco Fantin – lui stesso consocio del diving – che subentra, scendendo nei particolari delle sue competenze: «Quello che caratterizza tutti questi siti è l’incredibile abbondanza di vita bentonica: abbondano spugne e tunicati, nudibranchi che in coste tirreniche o liguri sono rari qui sono comunissimi, è quasi impossibile fare immersioni senza vedere cavallucci marini… in un’immersione ne abbiamo individuati oltre 40… poi abbiamo perso il conto.

Tra i siti di immersione precedentemente elencati, quello che offre le migliori possibilità di fare incontri eccezionali è sicuramente l’area di Sistiana. Qui infatti coesistono in uno spazio ristretto diversi ambienti: gli scogli, la zona fangosa, le pareti della falesia, la zona a sedimentazione fine. I frequenti scogli si comportano spesso come “isole” ospitando altrettanto spesso organismi molto diversi. Questo unitamente all’abbondante apporto di nutrienti permette lo sviluppo di un’incredibile fauna tanto che in quest’area sono state segnalate oltre 50 specie di nudibranchi, ma non da meno sono i crostacei: dai maestosi astici ai gamberetti fantasma (Periclimenes amethysteus) passando per i granchi ospiti delle meduse (Rhyzostoma pulmo).

Proprio l’abbondanza di fauna “di piccole dimensioni” ha fatto si che i fotografi e i video operatori si siano concentrati specialmente sulla documentazione di queste “microfaune”. Inoltre questa situazione di particolarità così diffusa ha creato le condizioni ideali affinché alcuni organismi potessero riprodursi al meglio. Ad esempio i già citati Gamberetti fantasma e i Gamberi delle praterie (Hippolyte inermis), di solito molto rari, sono qui facilmente visibili tra i tentacoli degli anemoni. Tra i nudibranchi ricordiamo Knoutsodonta pictoni un piccolo nudibranco istituito solo l’anno scorso e segnalato finora solamente a Sistiana, in Sardegna e sulle coste Irlandesi o le rare ma coloratissime Okenia elegans oppure le piccole Dicata odhneri…»

È di nuovo Andrea a precisare che «naturalmente queste peculiarità sono ben note ai subacquei triestini che frequentano da anni tutto il litorale alla ricerca di questi piccoli tesori naturalistici. Tuttavia non sono solo i sub locali a dedicarsi assiduamente a quest’attività: numerosi sono i sub friulani e veneti ma non mancano quelli lombardi o emiliani e nemmeno sloveni e croati, tutti attirati anche dal fatto che le immersioni sono generalmente semplici sotto il profilo tecnico e possono essere effettuate comodamente da riva

A Chiara Scrigner, fotografa e guida subacquea naturalistica (sue le foto del servizio – ndr), ulteriore socia del diving, affidiamo la sintesi finale, che suona un po’ come la risposta alla fatidica domanda: “In conclusione perché continui a immergerti proprio nel Golfo di Trieste?” «Perché ci sono sempre un sacco di tesori da scoprire. Perché anche se ho fatto 100 volte l’immersione nello stesso posto ogni volta scopro qualcosa di nuovo. Perché non conosco nessun altro luogo dove dopo neanche un’ora ho visto decine di cavallucci. Perché qui con un po’ di attenzione (per non sollevare troppa sospensione) si possono osservare animaletti stupendi. Per parafrasare il titolo di un film: “perché ci sono Animali fantastici e so…dove trovarli”.

Sono motivi che mi spingono a mettere la muta e ad andare in acqua anche quando fa freddo o piove… per la certezza che ci sarà sempre qualcosa da scoprire. E mi sono accorta un po’ alla volta che non soltanto io ho preso a pensarla così: durante l’anno vengono svolte iniziative di vario tipo come gare di fotosub, concorsi fotosub a livello internazionale (vedi MareNordEst), pulizie dei fondali, conferenze e lezioni di biologia marina ma anche semplicemente campi estivi per giovanissimi. Tutte iniziative volte a far conoscere le bellezze dei nostri fondali …per valorizzarle e tutelarle.

È questo il mare del dettaglio, del colore e dell’intimità.»

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